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Giuseppe Tornatore, passione noir: il racconto dell’Incontro Ravvicinato alla Festa di Roma

Il regista siciliano protagonista di una masterclass nella quale ha sviscerato il suo amore per il genere

Giuseppe Tornatore, passione noir: il racconto dell’Incontro Ravvicinato alla Festa di Roma

Il regista siciliano protagonista di una masterclass nella quale ha sviscerato il suo amore per il genere

Ascoltare un esperto parlare di cinema è sempre un piacere: c’è da imparare, da ammirare la sua conoscenza, viene spontaneo segnarsi su un foglio di carta nomi e titoli. Ancora meglio, però, è ascoltare un appassionato vero, un fan, una persona innamorata: è quello che è successo alla Festa di Roma durante l’Incontro Ravvicinato con Giuseppe Tornatore, che oltre a essere uno dei migliori registi italiani da ormai parecchi anni è anche uno che ama il cinema noir con tutte le sue forze, ne ammira gli artifici narrativi e registici, lo conosce come le sue tasche, l’ha sviscerato film dopo film, sequenza dopo sequenza.

Il noir è, d’altra parte, il tema della Festa di quest’anno, e il direttore artistico Antonio Monda ne ha approfittato per portare sul palco una delle massime autorità italiane in materia. Il format è sempre quello: ospite e moderatore sul palco, maxischermo alle loro spalle, e clip su clip (otto, in questo caso) tratte da film indicati dallo stesso Tornatore come irrinunciabili se si decide di imbastire un discorso sul genere. «Non è una classifica» precisa subito il regista, «né sto dicendo che questi siano i migliori noir di sempre. È la mia personale selezione, di pellicole a cui sono particolarmente legato e che dicono molto sul genere».

Si comincia con il botto, con due sequenze tratte da La fiamma del peccato di Billy Wilder: «L’ho scelto» spiega Tornatore «perché ho avuto la fortuna di incontrare Billy Wilder e di farmi raccontare un paio di aneddoti sulla lavorazione». Definirli semplici aneddoti è forse limitante: nella prima delle due sequenze proiettate, i due protagonisti (Fred MacMurray e Barbara Stanwyck) devono fuggire dal luogo del delitto, ma scoprono che la loro macchina non si mette in moto. «Wilder mi ha raccontato che originariamente nella scena i due dovevano scappare senza problemi, una soluzione che a lui non piaceva perché sosteneva che mancasse di tensione. Quindi chiuse i lavori per la giornata e disse a tutti che  avrebbero ripreso il giorno dopo. Uscì dallo studio, andò alla sua macchina e… non riuscì a farla partire. Lì capì che cosa mancava alla sua scena. Quella della macchina che non parte è una delle idee narrative più classiche, ma Wilder fu il primo a metterla in scena». Ancora più curioso è l’aneddoto sulla seconda scena, nella quale Stanwyck si nasconde nel corridoio di un albergo dietro una porta aperta. «Le porte degli alberghi» racconta Tornatore «si aprono verso l’interno, il che rovinava completamente tutta la scena. Wilder non riusciva a trovare una soluzione plausibile, finché si rivolse al capo macchinista e gli disse “smontami le cerniere e rimontale al contrario”. Per me è significativo: indica che puoi anche scrivere la scena più perfetta del mondo, ma se non conosci minuziosamente la realtà corri il rischio di girare qualcosa che non funziona, che non “gira”».

Si prosegue con La donna del ritratto di Fritz Lang: «Lang è un regista che mi manda in crisi perché non saprei scegliere tra i suoi noir e quelli di Wilder, che era più eclettico e sapeva fare tutto, mentre Lang era più “limitato” in un certo senso, ma era un fenomeno con storie di questo tipo». La scena che vediamo è il finale, «molto controverso all’epoca» come spiega Tornatore: «Alla fine si capisce che tutto quello che succede al protagonista è un sogno, e molti critici dissero che era una scorciatoia per chiudere una storia troppo complessa per essere raccontata normalmente. Per me questa scena è eccezionale, soprattutto per come passa dal piano onirico a quello reale senza alcun tipo di stacco: un’idea rivoluzionaria, credo che Lang sia stato il primo a fare una cosa del genere. Che funziona anche perché il film è in bianco e nero: il colore avrebbe svelato il trucco». Il film è anche l’occasione per cominciare a parlare di alcune di quelle che sono le caratteristiche standard di tutti i noir: per esempio, «è un classico che il protagonista sia per esempio un docente di criminologia che commette un crimine, o un assicuratore che commette un omicidio per frodare l’assicurazione e incassare i soldi. Il noir è un genere monotematico, che a partire da questo singolo tema prende mille direzioni diverse». Altre considerazioni a riguardo: uno dei temi principali del noir è quello della sconfitta, del senso di colpa (non è un caso che Dostoevsky e il suo Delitto e castigo tornino spesso nel corso della conversazione). E poi, ed è qui che Tornatore spiega perché (forse) preferisce il noir al giallo, «quest’ultimo comincia dopo che il crimine è già stato commesso, mentre il noir ti fa vedere come si arriva a quel crimine, non ti nasconde nulla».

Altro tema centrale del genere, e della successiva clip tratta da Lo specchio scuro di Robert Siodmak, è quello del doppio: «Siodmak, che è stato per lungo tempo considerato un regista minore di opere commerciali, qui fa praticamente un miracolo» usando Olivia de Havilland nel ruolo di due gemelle identiche. «Non solo dal punto di vista tecnico fa delle cose difficilissime, è anche capace, una volta finito il film, di instillare comunque il dubbio nello spettatore: cosa ho appena visto? Qual è la verità?».

Il già citato Dostoevsky torna in Ho ucciso! di Josef von Sternberg («Il cui vero nome era Sternberg, ma si aggiunse il “von” per darsi un’aria nobile» racconta Monda), basato sul romanzo dell’autore russo. Qui la conversazione si sposta su una domanda filosofica: è possibile trarre un grande film da un grande romanzo? «Ho ucciso! non è all’altezza di Dostoevsky, senza dubbio. Però se vai oltre il naturale complesso di inferiorità e lo guardi come film è meraviglioso, pieno di idee di regia fortissime». La discussione prosegue tra esempi e controesempi (vi basti pensare a Il padrino, «tratto da un romanzo mediocre e trasformato in un’opera d’arte da Coppola» secondo Monda), prima di tornare in territorio noir con un film di un regista «conosciuto a malapena dai cinefili» come Jacques Tourneur, del cui Le catene della colpa Tornatore apprezza «i dialoghi altamente letterari, apodittici, fatti di affermazioni secche e incisive, che ricordano persino certi western di Sergio Leone».

La tripletta finale è fatta di film «un po’ diversi» secondo Monda. Il primo, Detour di Edgar Ulmer, è in proiezione in questi giorni proprio alla Festa di Roma, nella versione restaurata voluta da Martin Scorsese, ed è «un film bellissimo e molto scalcagnato: la leggenda vuole che sia stato girato in sette giorni e a tratti si vede, ma a me bastano i primi minuti, in cui conosciamo il protagonista e scopriamo il suo passato con pochi, semplici tocchi, per dire che si tratta di un film bellissimo e da riscoprire. Oltre a essere uno dei primi, forse il primo, a far nascere storie intorno all’autostop, un’idea che, come dice il protagonista del film, “potrebbe ispirare decine di romanzi”».

È poi il turno di Il buco di Jacques Becker, storia di un gruppo di detenuti e del loro intricato piano per evadere da una cella. «Sono talmente maniacali e attenti ai dettagli che ora della fine del film tifi per loro e speri che ce la facciano, anche se sai che sono criminali: questo ribaltamento morale è un classico del genere noir, che raramente ha protagonisti irreprensibili e con i quali è facile empatizzare». Chiusura, infine, dedicata a un non-noir (o forse sì? Monda e Tornatore non riescono a mettersi d’accordo a riguardo) di uno dei più grandi di sempre, Alfred Hitchcock: il film è Il delitto perfetto, e la scena quella finale, «che per me rappresenta tutto Hitchock in pochi minuti. Quando avevo 15 anni e facevo il proiezionista lo proiettammo otto o nove volte nel giro di due giorni e io me lo vidi tutte le volte. La scena che abbiamo appena visto (con l’ispettore che racconta ai protagonisti quello che sta succedendo fuori dalla finestra) per me è incredibile, perché sembra quello che fa un regista o uno sceneggiatore quando deve vendere un film a un produttore: sinteticamente, efficacemente, deve raccontare quello che sta succedendo e far venire voglia a chi ascolta di sapere come va a finire. Devi essere essenziale, efficace, generare chiarezza, ma anche tensione e sorpresa: per me tutto il cinema di Hitchock è racchiuso in questi pochi minuti». Potete vedere l’intera sequenza qui: poi diteci che non ha ragione Tornatore…

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