To Rome with Love: l'intervista a Flavio Parenti, co-protagonista con Woody Allen
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To Rome with Love: l’intervista a Flavio Parenti, co-protagonista con Woody Allen

L'attore di origini francesi racconta l'esperienza con il regista newyorkese, di cui interpreta il fidanzato della figlia

To Rome with Love: l’intervista a Flavio Parenti, co-protagonista con Woody Allen

L'attore di origini francesi racconta l'esperienza con il regista newyorkese, di cui interpreta il fidanzato della figlia

Flavio Parenti è il prototipo dell’Attore 2.0. Ha pian piano piegato la sua formazione classica, teatrale, all’utilizzo dei nuovi media, su cui testa costantemente soluzioni creative originali. Per rendere l’idea: qualche anno fa, il pubblico dello storico Teatro Stabile di Genova si trovò ad assistere – tra uno Shakespeare e un Goldoni – ad una versione per il palcoscenico… del videogames piratesco Monkey Island, da lui scritta e diretta, con tanto di titoli di testa in stile cinematografico e voce narrante registrata fuori campo. Oggi, quella vocazione si è trasformata in un film sperimentale (Sogno farfalle quantiche) – premiato ad un importante Festival di cinema indipendente di Los Angeles –  e in una webseries (#bymyside, cliccate qui per saperene di più e vedere il trailer), entrambi autoprodotti. Prima e dopo, tanti ruoli teatrali e televisivi (Distretto di Polizia, Cenerentola e, prossimamente, la miniserie di Pupi Avati Un Matrimonio), e una filmografia che conta già un buon numero di titoli (Parlami d’amore, Colpo d’occhio, Un altro mondo). Ma il trampolino di lancio internazionale è stato il film-caso Io sono l’amore di Luca Guadagnino: passato al Festival di Venezia nella sezione Orizzonti e praticamente ignorato nelle sale italiane, ha incassato 5 milioni di dollari oltreoceano, permettendogli di essere notato da due maestri come Peter Greenaway e appunto Woody Allen, che l’ha voluto per il suo film “italiano” To Rome with Love. Quando gli chiediamo come è stato ricevere la notizia, la risposta è una conferma del suo rapporto privilegiato, e per nulla snobistico, con il web: «Quando mi hanno detto che ero stato preso, prima che fosse ufficiale, la tortura era non poterlo dire a nessuno… Non poterlo scrivere sulla bacheca di Facebook!»


In quale episodio reciti?
«Sono nello stesso in cui recita proprio Allen. Lui interpreta il padre della mia ragazza (Alison Pill, NdR), un produttore musicale che viene a Roma per capire con chi si è fidanzata la figlia. Porta lo scompiglio tra me e lei, e tra me e mio padre, sul quale nutre molti sospetti. Ma alla fine tutto si sistema.»

Hai molte scene con lui?
«La maggior parte.»

Che effetto ti ha fatto recitare insieme a un mito del cinema americano?
«All’inizio mi sembrava “solo” lavoro, io sono piuttosto pragmatico. Poi, durante un dialogo, ho avuto un momento di epifania che mi è tornato limpido in mente quando ho doppiato il film in italiano. Lui ha pronunciato una battuta tipicamente alleniana, un gioco di parole sui pesci, e si capiva al 100% che era uscita dalla sua penna: in quel momento mi sono reso conto che c’era Allen davanti a me, e che mi stava rivolgendo una delle sue battute. Praticamente era “il Cinema” che mi parlava.»

Nel film ci sono molte altre star americane.
«Con molti di loro non ho lavorato direttamente, perché il mio episodio è stato girato per ultimo, ma li ho conosciuti tutti il giorno della prova costumi. E ricordo benissimo la mattinata. Arrivo bello pimpante, e vedo nell’ordine: una ragazzina minuta che sta mandando messaggini al telefono. Era Ellen Page. Poi continuo a camminare, e vedo un tipo biondo e pompatissimo, che parla ad alta voce, tutto gasato. Era Alec Baldwin. Cammino ancora, arrivo al set vero e proprio, e viene a presentarsi un tipo un po’ impacciato, che mastica l’inglese in un modo stranissimo: ‘Ehm… Mmm… Hi, I’m Jesse’. Era Jesse Eisenberg.»

Eisenberg sembra il ritratto dei suoi personaggi.
«Ha qualcosa di speciale, si vede subito, un grado di concentrazione fuori dalla norma.»

E Woody Allen quando l’hai incontrato?
«Subito dopo. A quel punto ero convinto che mi avrebbe osservato e poi detto: ‘No, non va bene, ho cambiato idea’, come succede negli incubi. Per fortuna non è andata così.»

Come dirige gli attori?
«Mentre si gira non è un regista che ti dà troppe indicazioni, dà per scontato che tu sappia fare il tuo lavoro e ti lascia tranquillo, una cosa che è comune a tutti i grandi con cui ho lavorato.»

Quali sono le differenze maggiori che hai notato rispetto alle produzioni italiane in cui hai lavorato finora?
«Principalmente il tempo a disposizione. Tutti gli attori potevano prepararsi alle scene con grande calma, e ogni cosa veniva fatta con tranquillità. Vedere la meticolosità con la quale il direttore della fotografia Darius Khondji preparava i suoi imponenti set luci era veramente uno spettacolo.»

E del nuovo film di Greenaway cosa puoi dirci?
«Il modo di fare cinema di Greenaway è opposto e complementare. Uno straordinario caos creativo in cui le cose prendono forma un po’ alla volta. Era lui stesso a dire ‘Della continuità narrativa non mi importa niente’. Tutt’ora, pur avendoci lavorato, non saprei raccontarti la trama del suo film… »

Parliamo un po’ del tuo percorso, che parte dal teatro, passa per la TV, approda al cinema e ora ti vede impegnato anche sul fronte delle web series.
«Quella che negli anni ’70 era ricerca umanistica, in pratica è diventata ricerca tecnologica. L’artista paradossalmente è il nerd per eccellenza. Oggi è tutto su Internet. È già tutto su Internet: la percezione del mondo viaggia lì.»

Il web però è cambiato molto in questi anni. All’inizio era soprattutto un imbuto, che filtrava quello che proveniva dagli altri media.
«All’inizio è sempre così. Anche la TV inizialmente riproponeva il teatro. Poi ogni media trova il suo linguaggio specifico. Quello della TV, per esempio, ormai abbiamo capito che è il reality. Ora bisogna capire cosa diventerà il web. Andremo verso un linguaggio più cinematografico o verso una interattività totale, come mi sembra più probabile? L’unica cosa sicura, è che adesso è il momento di occuparsene.»

Come descriveresti il tuo web serial #bymyside?
«Sono tre amici che in una specie di notte eterna aspettano il ritorno del loro cantante, scomparso sei mesi prima. Durante la notte scopriremo cos’è successo al cantante e che cosa accadrà a loro mentre cercano di uscire da questa notte infernale, da questa “periferia dell’anima” in cui sono rimasti incastrati. Parte il 29 marzo alle 23.00, sul canale YouTube ufficiale della serie

Se non sbaglio l’hai curata da cima a fondo: attore, regista, produttore e anche sceneggiatore.
«Esatto. E ho fatto pure la post produzione e il montaggio. L’ho pure messa online se è per quello… e ora me la guardo! (ride, NdR

Sei una specie di “azienda artistica”, autore a 360°.
«Io preparo un viaggio, qualcosa che ho creato dalla A alla Z per il pubblico. Mi definirei “un artigiano” in questo senso. Ogni tanto mi piace pensare a Orson Welles, che a 24 anni veniva dal teatro e confezionò quell’opera prima da niente (si riferisce ironicamente a Quarto Potere, NdR) senza sapere nulla, ma nulla, di tecnica cinematografica. Lui per la prima settimana andò agli studi e si mise a posizionare le luci. Faceva esattamente la stessa cosa che aveva imparato a fare a teatro. Poi, dopo una settimana, il produttore va da lui e gli presenta il direttore della fotografia, Gregg Toland: “Guarda che c’è lui per fare questo lavoro”. E lì Welles va in crisi e comincia a pensare: “Ma cosa sto facendo? Io non lo so fare il cinema: in cosa mi sono messo?”. Non sapeva proprio nulla della grammatica cinematografica: non sapeva nemmeno che le macchine da presa vanno messe tutte a destra o tutte a sinistra della linea di visione degli attori. Ecco, a quel punto il direttore della fotografia, uno dei più grandi dell’epoca, gli ha detto: “Tranquillo Orson, non è niente che tu non possa imparare in due ore”. E in un certo senso è così: le basi tecniche le apprendi in fretta, poi la sfida diventa creativa.»

Pensi che le web series siano una sfida artistica decisiva ora come ora?
«La cosa bella di fare una web series è questa: non esiste un esperto al mondo. Non c’è qualcuno che ti può dire, “Così no, non sono belle”. Perché ancora non si è sperimentato abbastanza. Quanto devono durare? Con che intervallo devo caricare le puntate? Che tecniche narrative sono più efficaci per raccontare una certa storia? È tutto nuovo. Talmente nuovo che mi viene da dire: largo ai “dilettanti”. Perché forse è la prima volta che esiste un campo in cui i professionisti hanno le stesse chance dei dilettanti. Tanto che, sono pronto a scommettere, in 10 anni i professionisti che non si saranno applicati a sufficienza a questo nuovo linguaggio si vedranno portare via il lavoro da questi dilettanti. “Dilettanti” perché partono con lacune tecniche, ma creatività e voglia di sperimentare. E quelle lacune le colmeranno.

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