Bill Murray, con quella faccia un po' così...
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Bill Murray, con quella faccia un po’ così…

Mito vivente e attore di culto per eccellenza, il sessantaquattrenne Ghostbuster (se lo sei una volta, lo sei per sempre) torna al cinema con St.Vincent nel ruolo di un baby-sitter molto particolare. E ci racconta perché non ha voluto tornare a essere un Acchiappafantasmi

Bill Murray, con quella faccia un po’ così…

Mito vivente e attore di culto per eccellenza, il sessantaquattrenne Ghostbuster (se lo sei una volta, lo sei per sempre) torna al cinema con St.Vincent nel ruolo di un baby-sitter molto particolare. E ci racconta perché non ha voluto tornare a essere un Acchiappafantasmi

…quell’espressione un po’ così, che ha sempre addosso Mr. Murray. Faccia d’angelo e adorabile canaglia, l’attore sessantaquattrenne ha costruito il proprio mito sul ruolo del maestro inaffidabile, del burbero innamorato, del misantropo dal cuore d’oro. Un personaggio che gli calza a pennello e che riprende ancora – e anzi eleva all’ennesima potenza – nel suo nuovo film, St.Vincent, in cui interpreta un mezzo alcolizzato con la fissa per i cavalli, che si ritrova a fare il baby-sitter a un ragazzino dodicenne. Di certo dovrebbe saperne qualcosa, uno come lui, che ha sei figli (il più grande di 32 anni, il più giovane di 13), due matrimoni falliti alle spalle, e che è cresciuto insieme a otto fratelli e sorelle. «Sono il quinto, quindi ho fatto il baby-sitter dall’età di sei anni e non ero neppure pagato per farlo».

 

Ti è stato di aiuto per la tua interpretazione?
Bill Murray: «Non so dirlo, ma ho fatto del mio meglio. Vincent è uno che sembra non avere nulla di importante per cui vivere. Ha amato sua moglie, ma negli ultimi dieci anni lei è sparita e lui è rimasto aggrappato a qualcuno che nemmeno si preoccupa della sua esistenza. Era un eroe di guerra in Vietnam che ha salvato molti compagni, ma ora non c’è più alcuna guerra da combattere. Poi ad un certo punto irrompono nella sua vita una mamma (Melissa McCarthy, ndr) e suo figlio, e apparentemente è l’occasione per guadagnarsi qualche soldo. Ma è subito chiaro che, oltre a questo, intravede anche l’opportunità di trasmettere a qualcun altro quello che ha imparato nella vita…».

Lo definiresti un perdente?
BM: «Non proprio, è solo un po’ perso. È un momento della vita che arriva per ognuno di noi; ti fermi a pensare: “Quanto valgo per gli altri o per questo mondo? Che cosa ci faccio qui? Come posso giustificare la mia esistenza?”. Ti confronti con questo tipo di malessere, ti arrabbi e rimani frustrato perché non trovi una risposta. Ma non puoi farci nulla, succede e basta».

Tu hai avuto un mentore, un punto di riferimento, mentre crescevi?
BM: «Ho avuto un ottimo allenatore di baseball quando ero bambino. Era un tipo divertente, non molto serio, non era della serie “vita o morte”: giocavamo per divertirci. Rispettava le personalità di tutti e non provava a plasmarci per farci diventare simili a qualcun altro».

Cosa puoi dirci dei tuoi figli? Ora che sono più grandi, come comunichi con loro?
BM: «Be’, ho un iPad dove posso giocare con questi bellissimi videogame come Clash of Clans, con cui si divertono anche loro. Tra l’altro non lo uso per molto altro, eccetto forse per ascoltare un paio di canzoni che ci ho caricato. Poi ho un vecchio cellulare, un Blackberry, per poter contattare i miei figli più grandi, ma non rispondono se li chiamo sul telefono… usano praticamente solo messaggi di testo. Così gli mando delle brevi note, provo a essere divertente e breve e, se il messaggio risulta particolarmente simpatico, magari rispondono. Comunque non mi piace parlare al telefono. Ho circa 800 numeri in rubrica, ma non rispondo alle chiamate, e non sono un fan delle mail. Le uso, ma non mi interessano. La scuola dei miei figli ne manda tonnellate, siamo completamente sovraccarichi… Ma Internet è proprio fuori dai miei interessi, veramente».

Hai lavorato molto di recente, ma per un lungo periodo non hai girato film. Il motivo è perché ti stavi occupando dei tuoi figli?
BM: «In realtà è perché sono un tipo pigro. Lavoro duro e ti assicuro che se lo fai bene ti rende esausto. Mi sento completamente svuotato quando ho finito. Ma è un mestiere che mi piace molto anche perché è l’unico che sono in grado di fare. Lo amo ma deve esserci sempre dietro un buon film, altrimenti non mi ci metto neppure. Ho altre cose per la mente, tanti figli e uno stile di vita differente: la famiglia in effetti è una delle altre cose che richiedono un impegno durissimo. Anzi, negli ultimi anni sta diventando quello preponderante».

Di sicuro ami recitare per Wes Anderson. Hai fatto sette film con lui, da Rushmore a Grand Budapest Hotel: puoi spiegarci cosa c’è di unico in questo regista?
BM: «Wes continua a spingere per ottenere sempre di più. Amo il modo in cui lavora ai suoi film: scrive e gira nella stessa maniera in cui vive. Ad esempio: abbiamo fatto Grand Budapest Hotel in Germania e abbiamo appunto noleggiato un piccolo hotel, per avere la struttura a nostra completa disposizione. Era come essere attori dei bei tempi: la mattina scendevamo giù per colazione, prendevamo un caffè, il make-up era organizzato in una parte della hall e quando eravamo pronti si era subito sul set. Ha organizzato tutto in maniera molto divertente. Wes ha trasformato il piacere di fare film nel piacere della sua vita, e viceversa: in questo è un grande». […]

(foto: Kikapress)

 

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