Cannes 2018: la recensione della Palma d'Oro. Shoplifters di Hirokazu Kore'eda
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Cannes 2018: la recensione della Palma d’Oro. Shoplifters di Hirokazu Kore’eda

Il film che ha conquistato la giuria presieduta da Cate Blanchett racconta la storia di una famiglia povera che vive oltre i confini della legalità, mostrando che nulla è come sembra. E giudicare i personaggi è quasi impossibile

Cannes 2018: la recensione della Palma d’Oro. Shoplifters di Hirokazu Kore’eda

Il film che ha conquistato la giuria presieduta da Cate Blanchett racconta la storia di una famiglia povera che vive oltre i confini della legalità, mostrando che nulla è come sembra. E giudicare i personaggi è quasi impossibile

Shoplifters, Palma d'Oro di Cannes 71

Che cosa ha visto in Shoplifters del regista giapponese Hirokazu Kore’eda la giuria del Festival di Cannes 2018 guidata da Cate Blanchett, per decidere di assegnargli la Palma d’Oro?

Il film racconta la storia di una famiglia povera ma amorevole, che all’inizio del film sembra composta da un padre, una madre, una nonna, la sorella della madre e un bambino. Esiste però in questo nucleo un’ambiguità che esplode fin dalle prime scene e non viene mai risolta nel resto della visione, caricandosi anzi costantemente di nuovi elementi.

Pronti, via, e vediamo Osamu e Shota, padre e figlio, rubare al supermercato generi alimentari e di prima necessità (“shoplifters” significa “taccheggiatori”), con una tecnica talmente studiata da essere evidentemente figlia dell’abitudine. Poco dopo i due incontrano una bambina affamata e abbandonata a se stessa, e la portano a casa con sé. Le danno da mangiare, la ospitano per la notte e alla fine, quando scoprono alcune cicatrici sulle sue braccia, decidono di tenerla con loro.

Kore’eda racconta poi la vita di questa famiglia con un atteggiamento narrativo che chi ha visto i suoi lavori precedenti conosce bene: non c’è alcuna sottolineatura drammatica, ma anzi una composizione del conflitto sempre in sottrazione, per cui ad esempio una retata notturna della polizia che avrà sviluppi decisivi per la storia viene “detta” soltanto con l’alone di alcune torce nel buio, e i fatti più drammatici accadono in generale fuori dal campo visivo dello spettatore.

Messa in parole ancora più semplici: l’impressione è che le cose non accadano nemmeno quando stanno accadendo. C’è una specie di ritrosia nel gesto registico, un pudore estremo che da spettatori è lecito trovare anche un po’ faticoso (non immaginate quanti giornalisti dormissero durante la proiezione al Festival…), ma che nel cinema e nella cultura giapponese ha naturalmente una lunga e prestigiosa tradizione, basti pensare ai film di Ozu. E che soprattutto ripaga la pazienza con la sua capacità di rendere dettagli di per sé minuscoli, vividi e commoventi, perché pieni di significato.

Quello che interessa a Kore’eda è raccontare i legami tra questi personaggi, la loro forza e la loro sincerità, nonostante a rigor di legge e di morale non ci sia assolutamente nulla di sincero nella loro posizione sociale, nel modo in cui campano, e neppure nelle relazione familiari che hanno costruito. Niente, davvero niente, scopriremo, è come sembra; eppure tutto quanto lo è.

Ecco, l’economia di parole e fatti con cui questo regista ci coinvolge e poi ogni volta ci mette nella posizione di non saper esprimere un giudizio, dimostrando come quasi ogni sentimento cresca tra le sabbie mobili dei suoi opposti (in questo senso l’epilogo è davvero miracoloso), è il suo merito più grande, specie messo a confronto con registi che sembrano invece sempre pieni di sicurezze e di battaglie da combattere.

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