Capri, 1914. Un’isola ancora incontaminata, nella quale vive la capraia Lucia (Marianna Fontana), che si imbatte nella comunità naturista che fa capo a Seybou (interpretato dall’attore olandese Reinout Scholten van Aschat). La loro libertà, che sfocia in manifestazioni di nudo e altri gesti controcorrente, la affascina e la irretisce, cambiando per sempre la sua sensibilità di donna e portandola a lottare per la propria libertà. Contro il giogo di un maschilismo familiare insostenibile, di un patriarcato schiacciante.
Mario Martone è il regista italiano contemporaneo più vicino a Roberto Rossellini, sempre di più e sempre meglio: il suo ultimo film, Capri-Revolution, presentato in Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2018, ribadisce questo primato, che già non era affatto in discussione dopo i precedenti, preziosi Noi credevamo e Il giovane favoloso, dedicati rispettivamente alle lotte per l’Unità d’Italia e a Giacomo Leopardi.
Perché Martone è un regista didattico, ma mai didascalico. Indica la via, ma non abusa di retorica, imposta il suo cinema come modello limpido ed esemplare di umanità dal basso che si inebria di libertà e resiste, resiste, resiste, ma senza degenerare in ottuse celebrazioni. Capri-Revolution, in fondo, prende il collettivismo dell’apocrifo e discusso film sul Risorgimento e l’individualismo commovente e incandescente dell’opera biografica con Elio Germano e li fonde insieme, tirando le somme di una personalissima trilogia che dai moti patriottici arriva alla Prima Guerra Mondiale.
Spalancando così le porte all’orizzonte di un avvenire che nel finale di questo film vediamo di spalle, viatico tutto da scoprire, non si sa ancora se fecondo o denso di nubi pericolose. Quello che conta, però, è lo sguardo cristallino e senza nuvole del regista, al servizio di un’esperienza di autonomia che porta con sé la presa di coscienza di un Io che non è mai domo e che valorizza la sua purezza, oltre ogni imposizione. Proprio come fa la giovane popolana interpreta dalla bravissima Marianna Fontana, già protagonista di Indivisibili.
Se Luca Guadagnino nel bellissimo Suspiria, anch’esso in Concorso a Venezia quest’anno, usa la danza come invasamento demoniaco in grado di esorcizzare e insieme abbracciare i demoni della creazione artistica, della politica, del corpo come grumo di impulsi e passioni (tutto ciò che ci rende umani, insomma), Martone dice sostanzialmente la stessa cosa, ma con un tono opposto.
Le sue coreografie hippie non sono demoniache pacificate, distese, candide e al contempo segrete, come un oracolo, una profezia, un sogno ricomposto a fatica. Uno strumento eversivo e rivoluzionario, ma che nel mondo intende anche faticosamente trovare un posto, un baricentro, senza rotture né fratture, anche attraverso la ripetizione (come fa la magnifica colonna sonora di Sascha Ring in arte Apparat, nome di punta dell’elettronica mondiale).
Di Capri-Revolution, a pensarci bene si possono dire le stesse cose: diseguale e alterno ma affascinante e misterioso, un film d’autore liquido e fluido, un po’ lisergico ma in fondo sempre e comunque umanista e mortalmente seducente, come tutto il cinema del regista napoletano. Non teme nemmeno di risultare ermetico e chiuso in se stesso, di unire riflessioni e sensazioni, con sguardo progressista e utopico, a metà tra natura e cultura.
Un urlo a squarciagola, come testimonia lo splendido finale, e una lezione di civiltà, con in lontananza l’eco lontana di un teatro di guerra ancora tutto da inscenare, frutto di un disprezzo cinico e materialista che conosce solo le ragioni del profitto e dell’utile, dimenticando le connessioni fisiche tra gli uomini, gli impulsi della carne, l’audacia delle persone coraggiose. Come Lucia, e chissà quanti altri prima e dopo di lei.
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