Festa di Roma, Michael Shannon racconta Bob Dylan in Trouble No More
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Festa di Roma, Michael Shannon racconta Bob Dylan in Trouble No More

Presentato a Roma il film-concerto sulla "fase gospel" del premio Nobel americano. Peccato solo per il risultato

Festa di Roma, Michael Shannon racconta Bob Dylan in Trouble No More

Presentato a Roma il film-concerto sulla "fase gospel" del premio Nobel americano. Peccato solo per il risultato

Gennaio 1980, Seattle. Bob Dylan sale sul palco del Paramount Theatre accompagnato da una band di turnisti eccezionali e da cinque coriste gospel. Il set comprende le diciassette canzoni del suo recente Slow Train Coming e qualche inedito, provato in tour prima di finire sul successivo Saved. Nessun classico, nessuna canzone-simbolo del cantautore americano (nonché recentissimo premio Nobel): il pubblico, che già aveva bocciato il disco, non apprezza. Il motivo? Dylan ha smesso di cantare la beat generation e di fare musica politica e si è abbandonato alla fede cristiana, che l’ha colpito come un fulmine (sotto forma di crocifisso lanciatogli sul palco, racconta lui stesso) e l’ha convinto a dedicare le sue opere al Verbo.
Tutto questo ve lo raccontiamo perché Trouble No More, il documentario (ora vi spieghiamo) sul Gospel Tour e sulla “fase mistica” di Bob Dylan, presentato oggi alla Festa del Cinema di Roma con la presenza in sala di Michael Shannon (ora vi spieghiamo), glissa sul contesto per abbandonarsi a un approccio in medias res che lo fa assomigliare molto a un capitolo isolato di una storia più ampia – quella di una carriera cominciata nel 1959, che ha attraversato tutta la storia dell’America dell’ultimo mezzo secolo e che, sì, ha anche abbracciato la fede e il linguaggio musicale usato per esprimerla. Presentato, a parole, come un documentario, Trouble No More è piuttosto un film-concerto, che mischia momenti di musica live – le riprese del set al Paramount Theatre, appunto – a sermoni (sì, sermoni) scritti dall’autore belga Luc Sante e recitati da Michael Shannon, predicatore solitario in una chiesa vuota e spettrale. C’è una certa superficiale coincidenza tra i temi trattati da Shannon e i testi cantati da Dylan, ma l’amalgama tra le due anime del film finisce qui.

È solo uno dei difetti di Trouble No More, un’operazione che si regge su materiale di altissimo livello e non ha alcuna idea di come trattarlo per renderlo interessante. I fan di Dylan conosceranno già il suo periodo gospel e non hanno bisogno della sintesi di uno degli 80 concerti che il cantante fece nel corso del tour, e tutti gli altri potrebbero rimanere spiazzati di fronte a un’esibizione che del Dylan tradizionale ha molto poco; soprattutto, manca una cornice, qualcosa che possa spiegare a chi non è fan di Robert Allen Zimmermann il senso e il motivo di portarsi sul palco un coro gospel e di cantare le lodi del Signore. Certo, è possibile che l’idea di Lebeau fosse quella di trasformare il predicatore di Shannon nella cornice, i suoi monologhi visti come introduzione a ogni pezzo; possibile, forse anche probabile, ma il risultato lascia piuttosto a desiderare, perché i suoi sermoni, seppur condotti con un’energia e un carisma fuori dal comune, sono di una banalità sconcertante, una raccolta di Baci Perugina a tema cristiano che non riescono a provocare né a stimolare alcuna riflessione. A chi vuole più bene Dio, al ricco stronzo ed egoista o al povero cristiano squattrinato ma buono? Il tenore, la profondità di analisi, sono questi.

Una pezza in questo ha provato a mettercela Michael Shannon, protagonista insieme a Lebeau di un breve incontro post-film nel quale, pur dovendosi districare tra domande non esattamente ficcanti («Quando hai fatto Revolutionary Road hai letto prima il libro o ti sei preparato solo leggendo la sceneggiatura?»), Shannon ha trovato il tempo di dare la sua interpretazione della figura del predicatore e del suo legame con Dylan: con la voce impastata dal jet lag (e dalla cantilena del suo accento del Kentucky), l’attore-feticcio di Jeff Nichols ha spiegato che «molte delle idee espresse dal mio personaggio sono semplicissime, quasi banali, che qualsiasi credente avrà sentito decine di volte nella sua vita; eppure le cose continuano ad andare male, la gente continua a essere egoista e crudele verso il prossimo: i miei sermoni sono, come le parole di Dylan, un modo per chiedere a tutti “se sappiamo cosa dobbiamo fare, perché non lo facciamo?”».

È un’interpretazione valida dell’approccio alla materia di Trouble No More, e d’altra parte Dylan ha sempre fatto della semplicità e secchezza del messaggio una delle sue armi migliori. Resta il dubbio sull’utilità dell’operazione del genere, che non dice nulla di nuovo sul premio Nobel, non mostra nulla di inedito – su YouTube si trovano parecchie clip del Gospel Tour, né il film mostra il set completo, solo una selezione dalla scaletta –, non riesce neanche ad avere la coesione necessaria a mettere in piedi una narrazione. È solo un(a parte di) concerto, intervallato da qualche pezzo di bravura di Michael Shannon: non è certamente l’operazione più offensiva della storia, ma concorre a diventare una delle più anemiche.

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