L'italiano medio è volgare e squallido, ma diverte. La nostra recensione
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L’italiano medio è volgare e squallido, ma diverte. La nostra recensione

Sbarca al cinema l'opera prima del comico Maccio Capatonda, che vuole farci ridere e vergognare di come siamo diventati. Dal 29 gennaio

L’italiano medio è volgare e squallido, ma diverte. La nostra recensione

Sbarca al cinema l'opera prima del comico Maccio Capatonda, che vuole farci ridere e vergognare di come siamo diventati. Dal 29 gennaio

Dopo i successi stratosferici di Zalone al botteghino, si torna a puntare forte su un volto “televisivo” con Maccio Capatonda e il suo Italiano medio, prossimo a sbarcare al cinema con 400 copie al suo esordio (il 29 gennaio). Maccio Capatonda, al secolo Marcello Macchia, è un fenomeno di culto del web amatissimo dai cinefili grazie ai suoi trailer parodia: un centinaio di secondi e poco più in cui Capatonda riesce a comprimere mirabilmente genio e follia, cinefilia e non-sense, giochi di parole e travestimenti, raggiungendo una popolarità che lo ha portato a sbarcare anche su MTV con la serie Mario.

Lo attendeva al varco la sfida più tosta: il lungometraggio. Riuscire a essere altrettanto esplosivo in un tempo dilatato. Italiano medio, diretto, scritto e interpretato da Maccio, è infatti lo sviluppo del finto trailer di Limitless con Bradley Cooper: due minuti, in cui era un uomo intelligente e socialmente responsabile, che assumeva una pillola che gli cambiava totalmente la vita. Parodisticamente, rispetto alla Lucy di Besson che si ritrova ad avere a disposizione il 100% del cervello, Maccio deve capire cosa riuscire a fare con solo il 2%… E proprio da questa domanda prende il via il racconto.

Giulio Verme è il perfetto emblema dell’uomo socialmente impegnato: allergico alla televisione sin da bambino, avverso a ogni massificazione, vegano convinto, sempre pronto ad aiutare gli emarginati, con la fissa per l’ambiente e le scelte etiche ed ecosostenibili. Addetto allo smistamento dei rifiuti a Milano, cerca di inculcare un po’ di senso civico nei colleghi, che gli rispondono a suon di scoregge. La radicalità delle sue scelte finisce per creare un muro tra lui e le persone che lo circondano: i genitori in primis, gli amici, i vicini e persino la fidanzata Franca, esasperata dal suo atteggiamento da uomo frustrato e ostile, ma fondamentalmente passivo.

Giulio si ritrova isolato e disperato, sopraffatto dal “lerciume” che lo circonda, sempre più nevrotico e ansioso. Finché nella sua vita non approda l’amico Alfonzo, un ex compagno antipatico  delle elementari che gli offre una pillola straordinaria, che gli permetterà di usare solo il 2% del cervello, invece che il 20%. La metamorfosi sarà da Dottor Jekyll e Mr Hyde: da attivista rompiscatole e fanatico, Giulio diventerà un tronista beota con il mantra fisso dello “scopare”, della disco e del lusso cafonal, volgare e ignorante, carnivoro e menefreghista, guadagnandosi – impresa becera dopo l’altra – il diritto alla partecipazione al reality show più di culto del momento. L’apoteosi dell’italiano medio.

Capatonda ha messo tutto se stesso in questa opera prima e il primo punto a favore gli deriva dall’enorme cura del dettaglio che il film mostra. Nulla è lasciato al caso, a partire dagli esilaranti titoli di testa (Tratto da una storia finta), che fanno partire in quinta il film e che denunciano da subito il pedigree cinefilo dell’autore. Che ha di fatto disseminato tutto il film citazioni filmiche facili da riconoscere via via.

Tuttavia, il triplo salto carpiato dai video di 1/2 minuti al lungo di 100 equivalgono a passare dallo sguazzare in una piscina a nuotare nell’oceano. C’è un traccia coerente di fondo, ma i raccordi tra una scena comica e l’altra si stiracchiano troppo, portando con sé come conseguenza negativa la reiterazione di situazioni e tormentoni per allungare il brodo (amechemmenefregame, Sant’Iddio, Scopare…). Raccontare una metamorfosi in un video di 130 secondi risulta efficace, dilatarla con un continuo sdoppiamento di personalità ed esplicitando la lotta interiore sempre più opprimente che Verme si ritrova a combattere tra i suoi istinti primari da bifolco e gli intenti nobili, produce l’effetto di frammenti anche geniali, ma non ben incollati in un mosaico coerente.

Se la struttura narrativa è il punto debole più evidente di Italiano medio, va invece segnalata – come altro punto a suo favore – il peso specifico delle riflessioni, per nulla superficiali. Lo sguardo di Maccio sull’Italia e i suoi concittadini è amaro e disilluso, quasi crudele. Con un disgusto e un disprezzo maggiore di quello dello storico Fantozzi verso l’impiegato piccolo piccolo, Maccio non risparmia colpi a colti e ignoranti, ricchi e poveri, impegnati e menefreghisti.
Giulio Verme sdoppiato sintetizza le sublimi vette dell’arte del compromesso toccate dell’italiano, capace di essere vegano e mangiare il porco fritto; andare in chiesa e avere mogli e amanti; difendere il bio e inquinare. Opposti apparentemente inconciliabili, che – come vedremo nel finale – invece, per gli abitanti del Bel Paese sono assolutamente ricomponibili, abituati come siamo ad accettare obbrobri edilizi che radono al suolo parchi bio, scandali sexual-politici, indecenze cultural-mediatiche dei reality (memorabili lo scandalo del bianchino nel privè, che ha portato all’esclusione di Kevin, e la “prova pippotto”), come se fossero parte integrante e inalienabile del sistema. Maccio non ce le manda a dire, ma stigmatizza tutti i nostri vizi, costringendoci a ridere (amaramente) di essi.

Come sempre, è circondato dai soliti attori fidati: l’inseparabile Herbert Ballerina, che si trasforma in tre personaggi diversi; Rupert Sciamenna, imprenditore squalo con i capelli rosa; Ivo Avido, anche lui triplice. Molti i colleghi  che si sono prestati per differenti camei: lo Zoo di 105, Raul Cremona, Andrea Scanzi, Pierluigi Pardo e il principe assoluto del non sense Nino Frassica.
L’impiego degli stessi attori in più ruoli e con costumi diversi, pur se giustificato dal surrealismo che ìmpera, genera spesso un effetto cabaret innestato nel cinema che non giova alla dimensione estetica del film. Sebbene gli vada anche riconosciuta una fotografia curata (di Massimo Schiavon), che alterna colori diversi quando la personalità di Giulio cambia, non abbiamo sempre la sensazione di trovarci di fronte a un film tout court, limite più forte dei comici italiani importati dalla Tv.

Eppure, pensiamo che l’opera prima di Maccio vada premiata (anche per incoraggiamento, affinché continui a perfezionarsi, per giungere a una scrittura più equilibrata), perché regala sane risate, momenti di genio surreale (il folle “piano” finale degli attivisti) ed è una satira feroce che invita alla riflessione, come non accadeva da tempo in un film comico italiano.

 

 

 

 

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