Impegnato ormai da tre anni nel programma radiofonico Non è un paese per giovani, Giovanni Veronesi torna al cinema con un film che racconta la storia dei ragazzi italiani che se vanno all’estero: migliaia di ventenni che abbandonano il nostro Paese in cerca di speranza. Abbiamo avuto modo di parlare con il regista e sceneggiatore toscano – David di Donatello per la migliore sceneggiatura con Occhio Pinocchio di Francesco Nuti nel 1994 e diventato famoso con Che ne sarà di noi, Manuale d’amore, Genitori & figli – Agitare bene prima dell’uso e da ultimo nel 2014 Una donna per amica – che con questo nuovo lungometraggio si discosta prepotentemente dai suoi lavori precedenti, non abbandonando però la sua idea di commedia amara, sempre in dialogo con la società attuale e con tematiche di scottante attualità.
Veronesi ha condiviso con noi la sua passione per il tema dell’esodo dei giovani, e qualche curiosità sul dietro le quinte del film.
Quando ti è scattata la molla di voler trasformare Non è un paese per giovani, il programma radiofonico che conduci su Radio 2 dal 2014 insieme a Massimo Cervelli, in un film?
«Dopo 3 anni di programma sentivo il bisogno di affrontare il problema. In Italia si parla spesso di immigrati, però non si pensa che mentre arrivano delle persone, se ne vanno tante altre. E questi altri sono i nostri ragazzi. Ma non se ne vanno perché sono razzisti, se ne vanno perché in Italia non gli viene data la possibilità di lavorare, di esprimere desideri, di raggiungere i propri scopi. Non si tratta più della fuga dei cervelli. Si tratta di un esodo lento e inesorabile di impiegati, commessi, camerieri. Partono senza soldi, vanno là, fanno i camerieri per un po’ di tempo e poi si rendono conto che la vita in quel posto gli permette di crescere. Perché la risposta più drammatica di un ragazzo che ha chiamato dall’Australia è stata “Qui siamo considerati una risorsa, invece in Italia soltanto un peso”. Questa è una cosa gravissima. Siamo un paese che tra dieci anni non avrà una generazione di trentenni».
Ti sei ispirato a due giovani che sono intervenuti durante il programma per i protagonisti, Sandro e Luciano?
«Sì, è tutto ispirato alle storie che mi hanno raccontato, compresa questa nuova Cuba, questa nuova frontiera dove si può pensare di incominciare a fare affari. Sandro e Luciano sono un mix dei ragazzi con cui ho parlato. La particolarità del film che mi piace molto è l’aver inserito all’inizio e alla fine dei filmati veri che ho ricevuto da tutto il mondo: una cornice per far capire che tratto una materia concreta, non mi sono inventato storie. Ci tenevo a iniziare e finire il film regalando agli spettatori delle pillole di verità, che gli permettessero di entrare meglio nella storia di questi ragazzi».
Perché hai scelto Filippo Scicchitano, Sara Serraiocco e Giovanni Anzaldo? Cosa avevano di particolare?
«Ho fatto più di 500 provini e hanno vinto loro. Sono i più giusti per i ruoli. Perché credo che non sia sempre giusto prendere i più bravi, bisogna prendere quelli giusti. E loro erano quelli giusti per i tre ruoli».
Com’è stato girare a Cuba?
«Molto difficile. È stato il film più complicato della mia vita sebbene non avessi il TAR da domare o storie particolari da intrecciare. Cuba è un governo militare: se devi chiedere permessi o devi spostarti con il set cambiando programma da un momento all’altro – come accade spesso nel cinema – è un problema enorme. Devono sempre sapere dove sei, cosa fai. La burocrazia, e soprattutto la mentalità militare, vige ancora molto, soprattutto per queste cose. Mentre, invece, il pueblo è fantastico, sono meravigliosi e hanno ancora quell’entusiasmo per cui sono diventati famosi negli anni, anche in quelli più bui della loro storia».
Com’è nata la collaborazione con i Negramaro per le musiche del film?
«Io e Giuliano [Sangiorgi, ndr] avevamo già collaborato per Meraviglioso in Italians [film diretto da Veronesi nel 2009, ndr] e ho lavorato spesso ai loro videoclip. La mia collaborazione coi Negramaro non nasce oggi, ma questa volta è stato diverso: Giuliano ha seguito tutta la colonna sonora e credo che abbia fatto un piccolo capolavoro. Anche per lui è stata la volta più impegnativa».
Come racconteresti il film a qualcuno che non ha mai avuto modo di ascoltare il suo programma radiofonico?
«Ormai, anche se non hanno ascoltato il mio programma radiofonico, in quasi tutte le famiglie italiane c’è un ragazzo che se n’è andato, o l’amico del piano di sopra, o il cugino o il nipote, … per cui appena dico è un film sui ragazzi italiani che se vanno all’estero le persone capiscono subito. È un argomento sulla bocca di tutti. Io l’ho incominciato a trattare tre anni fa quando ancora non ne parlava quasi nessuno, ma Non è un paese per giovani è diventato quasi uno slogan: ho visto dei ragazzi che andavano in piazza a protestare con uno striscione con scritto Non è un paese per giovani».
Pur toccando sul vivo una delle tematiche più calde del momento storico in cui viviamo non si è distaccato dalla sua cifra stilistica, la commedia. In che modo è riuscito a fondere le due cose?
«Stavolta mi sono abbastanza distaccato. Ma è anche una commedia, perché come diceva Monicelli “La vita è una commedia”: giri l’angolo e ti fai la più grossa risata della giornata, poi ne svolti un altro e trovi una tragedia infinita. Per cui credo che la vera commedia sia questa: un film dove ti diverti, ma che abbia un finale così tragico e grottesco dove riconosci te stesso e tutta la tua vita. Non penso che la gente si possa riconoscere soltanto in un film divertente, penso che per innescare il processo di identificazione debba riconoscersi anche nel dramma e nelle cose che accadono quotidianamente. E questo è un film molto realistico e vero, un po’ diverso dagli altri miei film: non è su commissione, non ho badato al budget o ad avere delle star. Ho scoperto, per la seconda volta nella mia vita dopo L’ultima ruota del carro, un cinema che è più mio, che è più vicino a quello che mi piace raccontare in questo momento rispetto al passato».
Se partire delle volte sembra difficile, anche restare non è sempre facile. Che consiglio daresti a quei giovani che sono rimasti?
«I giovani che sono rimasti devono davvero lottare. Se hanno la voglia di farlo, la forza, la capacità, la personalità di lottare è giusto che rimangano. Fare determinate prime esperienze così lontani da casa è un doppio rischio rispetto che farle qui, protetti dalla famiglia. Un ragazzo che parte e tenta questa sortita ha un margine di rischio molto più alto. Quindi io consiglio a quelli che possono e se la sentono di lottare di farlo, perché l’Italia comunque vista da fuori è un paese eccezionale rispetto a tanti altri dove questi ragazzi stanno andando. Ormai è una cosa più grossa di noi, è una specie di macchina enorme che si è messa in moto senza che noi ce ne accorgessimo e adesso non sappiamo come fermarla. E così vediamo i nostri figli, i nostri nipoti che se ne vanno, inesorabilmente, senza possibilità di fermarli, perché purtroppo nessuno gli insegna che questo è un paese che si porta dietro la maggiore dose di cultura rispetto a qualsiasi altro luogo del mondo. Insomma, gli italiano sono forti, non sono soltanto cuochi, Ferrari e moda. Del nostro background te ne accorgi solo quando sei all’estero. Io non dico che non se ne devono andare, ma non devono andarsene pensando di lasciare un paese di sfigati. Se ne devono andare pensando di essere italiani e quindi di essere persone molto fortunate nel mondo, perché si portano dietro Venezia anche se non l’hanno mai vista, perché si portano dietro Firenze anche se non ci sono mai stati. È come quel gene che ti viene tramandato da tuo padre anche se tu non lo vuoi».
Hai in cantiere qualche nuovo progetto cinematografico al momento?
«Sì, film completamente diversi da questo e uno è una favola. É la storia vera di un gorilla cresciuto in cattività. Però, sono ancora totalmente immerso in questo, anche perché penso che l’argomento e il film mi abbandoneranno difficilmente nella mia vita finché faccio questo programma. Quindi il futuro per me, adesso, è Non è un paese per giovani, sia alla radio che al cinema».
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