Si può dire che ci sia stata una vera e propria epoca della cinefilia, iniziata nel 1995 con una scena di Heat e proseguita nel 2008 con un mediocre thriller intitolato Sfida senza regole, che è terminata soltanto oggi, anno 2019, con The Irishman. È stata l’epoca del desiderio inappagato, quello di vedere assieme a schermo – per più di qualche minuto e in un grande film d’autore – i due attori più iconici degli ultimi 50 anni, epicentro di un immaginario edificato a partire dagli anni ‘70 da Coppola e Scorsese che tocca il suo apice con Il Padrino Parte II, dove loro – De Niro e Pacino – condividono lo spazio in locandina ma mai il set.
I due sono assieme per quasi due delle tre ore e mezza in The Irishman, e hanno almeno una mezza dozzina di grandi scene adatte a celebrare la loro alchimia – un’alchimia che, verifichiamo, esiste e funziona benissimo (così come quella di Di Caprio e Pitt nell’ultimo Tarantino: qualche maligno direbbe che lo star system oggigiorno si è ridimensionato a tal punto che due divi, in un buon film, ormai ci entrano comodi…).
Il loro legame è centrale in quest’opera maestosa e fluviale, al contempo senile e fin troppo moderna (tutto quel digitale per ringiovanirli, non sempre in modo credibile, quando si sarebbe potuto prendere due attori giovani che gli somigliassero…), in cui i loro personaggi sono l’incarnazione sentimentale del lungo viaggio, tra cinema e vita, di Martin Scorsese, del suo rapporto con le origini familiari, con la religione e con il mestiere che si è scelto.
Ma anche del loro viaggio come interpreti attraverso la nostra memoria.
The Irishman ha in superficie molte cose in comune con Mean Streets, Quei bravi ragazzi e Casinò, e in profondità altrettante del tutto diverse.
È di nuovo il racconto a posteriori, cioè tutto in flashback, di un sopravvissuto: un killer al servizio della malavita (De Niro), a lungo guardia del corpo personale del più celebre sindacalista di tutti i tempi, Jimmy Hoffa (Pacino). Sopravvissuto a tutti, ai pari grado, ai piccoli boss, ai criminali leggendari, alle teste calde e alle mezze cartucce; sopravvissuto a un certo modo di intendere la vita e il crimine, sopravvissuto alla prigione e al lusso; sopravvissuto alla propria morale e all’amore dei suoi familiari. Nelle tre ore e mezzo che si prende, Scorsese – sopravvissuto a sua volta a tante diverse idee di cinema, a tanti autori coetanei e più giovani, a tante reincarnazioni dell’industria dell’intrattenimento, a tante polemiche e tanti successi – affonda nell’anima nera di questo “imbianchino” della mafia, mostrando come cadono i pezzi, fino all’ultimo e più grosso, fino a che di quell’anima non resta più niente.
È invece per la prima volta un viaggio non solo senza lieto fine, ma senza fine alcuno, senza cioè la consolazione di una qualsiasi catarsi, senza il riposo di una coscienza alleggerita né il conforto intellettuale di una presa di coscienza. Il protagonista di The Irishman finisce, assieme al film, ma non arriva. Da nessuna parte.
Formalmente è l’opera più ingombrante di Scorsese, quella più ambiziosa, in un certo senso fuori controllo. Non solo ci sono decine di momenti che non portano avanti la trama, ma ci sono scene diverse che assolvono alla stessa funzione, cioè operano un consolidamento dei rapporti tra i personaggi basato sulla pura insistenza, in ultimo è come averli impressi addosso – nella testa, nella retina, nelle orecchie.
Naturalmente non è una questione di noia o piacere, come ogni esperienza è diversa per tutti, ma è chiaro che si va molto oltre le necessità del romanzo storico, ci sono anzi certi stralci perfino e paradossalmente frettolosi da questo punto di vista, l’unica necessità riguarda i personaggi e gli interpreti, cioè l’autore, è un’opera generosa ed egoista assieme.
Le scene migliori sono, ancor più che in passato, attorno a un tavolo. O dentro un’auto. I dialoghi sono spesso brillanti, le interpretazioni superbe. Non se ne parla molto nelle recensioni lette fin qui, ma Harvey Keitel – che ha appena 5 minuti in tutto il film e parla pochissimo – ha ancora una presenza scenica notevole (senza bisogno del digitale). Joe Pesci, che interpreta un mafioso dall’indole opposta a quella del Tommy De Vito di Quei bravi ragazzi, un piccolo boss dalle premure quasi materne, uno che non alza mai la voce, è da brividi: una grande emozione, attore di infinite sfumature, ancora più evidenti accanto alle performance di sfacciato mestiere di Pacino e De Niro.
Rispetto agli interpreti resta infine il grande interrogativo, l’ultimo e in un certo senso il più importante in un film in cui per quasi il 90% del tempo chi è in scena è camuffato digitalmente o dal trucco: che senso ha compensare con la tecnologia (cioè con il budget, cioè con la forza) un processo di casting che ha tutto a che fare con gli attori e pochissimo con i personaggi? Ecco, serve a dirci che in definitiva The Irishman è questo, un film su un autore (Scorsese), su alcuni grandi interpreti (De Niro / Pacino / Keitel / Pesci), su un sistema di produzione e fruizione (Netflix), su un immaginario e su quello che ne resta.
È il Cinema camuffato da Storia, l’effetto speciale più grande di tutti, e l’ultima bugia di un gruppo di straordinari artisti.