Hall Baltimore è uno scrittore di romanzi horror. In tournée per promuovere il suo nuovo romanzo – non esattamente un successo – finisce a Swan Lake, sperduto paesello di provincia dominato da una torre con sette orologi (tutti puntati su un’ora differente), in cui vivono solo “vagabondi, orfani e anziani, per lo più gente che vuole essere lasciata in pace”.
Talmente in pace che in giro per strada non si vede nessuno, e i pochi che si vedono, come lo sceriffo Bobby LaGrange (Bruce Dern), hanno pessimi ricordi: qui, nel 1955, un pazzo fece una strage di ragazzini.
Twixt (guarda il promo trailer) terzo film a basso budget messo in piedi in assoluta autonomia produttiva da Francis Ford Coppola, che oltre a dirigere è autore della sceneggiatura. Dopo il fantasy esistenzialista (Un’altra gioivinezza) e il melò familiare (Segreti di famiglia), stavolta sceglie l’horror gotico, venato di un’ironia surreale e grottesca che ricorda il Lynch di Twin Peaks.
Il campionario del genere è proposto al completo: segrete, catene, fantasmi, cimiteri, addirittura Edgar Allan Poe (Ben Chaplin), che di notte appare nei sogni del protagonista per svelargli il passato di Swan Lake (e dargli qualche consiglio di scrittura).
Nell’abbondanza, è anche il limite del film: si parte dalla storia di un serial killer, si passa per spettri vecchio stile, e si finisce a parlare di vampirismo. E nel frattempo la si butta pure in commedia, ricamando su nevrosi e vita familiare del protagonista, con una moglie vipera sempre all’arrembaggio via skype. Per tutto non c’è spazio a sufficienza, né adeguata consistenza narrativa.
E non basta: Coppola sperimenta anche sul linguaggio, alternando 2D e 3D, con le due sequenze tridimensionali (più i titoli di coda) introdotte da un segnale che più che a un film fa pensare a un Luna Park: sullo schermo compaiono per qualche istante in primo piano degli occhialini rossi e blu, di quelli che si usavano una volta.
Detto questo, Twixt suscita comunque una certa simpatia: non solo per la passione e l’ardore cinefilo che ne trabocca, ma anche per una sequenza – quella dell’incidente in barca della figlia del protagonista – che è dettaglio dolorosamente autobiografico: nel 1986 Coppola perse così un figlio appena 22enne.