Umorismo camp, musica pop, gli anni ’80, l’infanzia magica insegnata da Spielberg e una vena anarchica che deve molto alla scelta di affidare il timone a James Gunn – uno che, non dimentichiamolo, ha un passato alla Troma. Tutto frullato e sublimato in una cinefilia all’acqua di rose (da Cantando sotto la pioggia a Footloose) e in una palette cromatica dalle infinite sfumature caramellate, che rimanda al cinema d’animazione contemporaneo molto più che alla fantascienza classica (semmai si potrebbero citare i fumetti di Moebius e Il quinto elemento), intasando lo sguardo e facilitando la commozione.
Ai Marvel Studios hanno capito che in questi anni di blockbuster in fotocopia in cui la distinzione di genere è stata sostituita dalla distinzione di target (dove c’erano la fantascienza e l’action, ora ci sono cinecomic e young adult, un unico universo di fantasie digitali che si è mangiato la gran parte del mercato) il valore aggiunto e l’unica differenza possibile sono la caratterizzazione dei personaggi e la scrittura delle gag, due cose in cui i Guardiani della Galassia sono imbattibili. Star-Lord, Drax, Gamora, Groot (un’evoluzione del lucasiano Chewbecca) e il procione Rocket – emblema di questo universo weirdo/cartoonesco che spinge nella direzione di Howard il Papero – sono una squadra di fantastici dropout che ha il vantaggio enorme di non avere alle spalle un fumetto ingombrante, ovvero un’iconografia consolidata, sociale, con cui fare i conti. Questo permette a Gunn di lavorare sui cliché della space opera con una libertà linguistica che deve ovviamente molto a Jon Favreau e Joss Whedon ma che fino a questo punto non si era mai spinta, tanto che varrebbe la pena confrontarla – oltre che con i riferimenti interni all’universo Marvel – con, ad esempio, le sperimentazioni comiche della Apatow Factory (e infatti ogni volta che John C. Reilly fa capolino ti aspetti che da un momento all’altro spunti anche Will Ferrell).
Le risate quasi ininterrotte nascondono per altro un depotenziamento dell’intreccio come metodo di intrattenimento abbastanza clamoroso: ci si limita a una pietruzza in grado di demolire pianeti, variamente inseguita dai protagonisti, dal villain Ronan, e da una combriccola di pirati dello spazio. Non se ne lamenterà nessuno, e non solo perché la ricchezza del film è in tutti gli altri settori, ma soprattutto perché questo è il destino della “serialità cinematografica”: ogni film è il pezzo di un puzzle e risponde a compiti differenti, si ritaglia una funzione. Qui la necessità è introdurre i personaggi e le loro relazioni, se fosse più breve e venisse trasmesso in TV lo chiameremmo pilot: nessuno domanda più a questo cinema il passo lungo del romanzo d’appendice, e chi ancora legge i romanzi d’appendice in linea di massima non è interessato.
In definitiva Guardiani della Galassia fonda una nuova mitologia sci-fi che punta su personaggi alla Lucas e su una comicità politicamente scorretta che rimanda al Saturday Night Live e all’animazione televisiva adulta; lo fa benissimo, e nel farlo restringe di molto lo spazio di manovra per i nuovi Star Wars, il che obbligherà probabilmente Abrams a calcare la mano su toni più adulti. Senza dimenticare mai che è tutta roba Disney: ovunque guardi, non c’è ombra del tragico.
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