Partiamo subito dalle divergenze. Non è la mafia italiana alla Corleone. Non sono i gangster dal sangue irlandese della Southie Boston, come Jimmy Bulger/Johnny Depp, i protagonisti di questo crime movie firmato da Pablo Trapero e ambientato nella città di provincia di San Isidro, non troppo distante da Buenos Aires. E già questo basterebbe da solo a conferire al film una prospettiva “esotica”. Ma a spiazzare è il ritratto della famiglia coinvolta nei crimini: non la Famiglia come la pronuncerebbe Brando nel Padrino, ma una tranquilla realtà medio-borghese, con tanto di padre che spazza ogni mattina la strada davanti alla bottega sottocasa, liberandola dal fogliame.
Chi potrebbe sospettare che dietro a quel signore tranquillo, padre di cinque figli, si nasconda invece un patriarca dispotico, un pazzo che non si fa scrupoli a sequestrare rampolli di ricche famiglie, per chiedere loro un cospicuo riscatto pena la morte, tenendoli nascosti nel bagno ai piani alti della villetta? E, invece, Arquimedes Puccio (il bravissimo Guillermo Francella, papabile Coppa Volpi insieme al Luchini de L’hermine), con quegli occhi di ghiaccio e quell’aspetto da albino, cela dietro l’apparente seraficità la crudeltà tipica dei tiranni.
Trapero con grande abilità assorbe il “business” nella quotidianità famigliare. Con i figli piccoli, soprattutto le ragazze, che fanno i compiti in sala da pranzo, mentre gli ospiti urlano e “gemono” al piano di sopra. Una vera e propria casa degli orrori, dove ognuno fa la sua parte: i figli grandi – Alexandro (il talentuoso Peter Lanzani) e Maguila – incaricati di prendere contatto con le vittime e adescarle, i piccoli col silenzio e l’omertà. A diventare da subito protagonista del film, è la diade Arquimedes-Alexandro, quest’ultimo promessa del rugby nazionale e capitano dei Pumas, tormentato da altalenanti crisi di coscienza, ma manovrato dal padre, vorrebbe emanciparsi dalla figura paterna, ma in parte è vittima di una vera e propria sudditanza psicologica, in parte è obnubilato dalle mancette cospicue che gli elargisce e che gli permettono di aprire un negozio di articoli sportivi. La tensione tra i due è sempre palpabile, gli obiettivi opposti: Alexandro vuole sposarsi, abbandonare, ma quando si tira indietro, il padre rischia il fallimento delle sue imprese e così lo costringe a rientrare. Il ragazzo non è in grado di liberarsi della soverchiante figura edipica e corre progressivamente verso l’annientamento di sé.
Per i primi anni ’80 i Puccio, all’insaputa dei vicini, hanno prosperato, soprattutto grazie all’appoggio di un commodoro che era in contatto con il capofamiglia quando lavorava per i servizi segreti argentini. Arquimedes, con l’aiuto di un paio di sgherri e dei figli maturi, non ha fatto altro che traslare i sistemi applicati dalla dittatura con i desaparecidos ai figli di papà, facendo affidamento sulle istituzioni che nei suoi confronti hanno sempre girato la testa dall’altra parte, ma all’avvento della democrazia i nodi vengono al pettine e la polizia gli sta alle calcagna. Quattro in tutto le sue vittime, di cui tre freddate senza pietà per non lasciare tracce compromettenti.
Trapero con un’abilità registica accostata spesso a quella scorsesiana, specie per l’avvilupparsi della musica alle scene più coinvolgenti, costruisce un film pieno di ritmo, dal montaggio serrato e costellato da piani sequenza (un po’ il suo marchio di fabbrica), in particolare quello finale mozzafiato che chiude sapientemente una storia dove le angosce sotterranee, controbilanciate dai successi al rugby, dalla freschezza dei ragazzi, da un desiderio di normalità che attraversa tutte le componenti sane della famiglia, alla fine deflagrano tragicamente.
Riflettendo retrospettivamente sulla storia di un paese che ha stentato/stenta ad abituarsi alla democrazia, l’argentino mette in scena i mostri partoriti dalla dittatura, sui quali svetta Arquimedes, mitologico Crono che pur di sopravvivere inghiotte i propri figli.
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