«Bisogna ricominciare a fare cinema di genere come facevano negli anni ’70 Dario Argento e Sergio Leone: italianizzandolo. Non inseguendo un’estetica all’americana, ma cercando di far sì, sarebbe bello, che fossero loro a inseguire noi».
Festival, quinto giorno. Il Lido è sempre afoso come una palude di Bangkok, ma oggi scende pure un po’ di pioggia: non proprio dei veri scrosci, piuttosto si ha la sensazione che l’umidità si sia ulteriormente condensata e trasformata in goccioline d’acqua. Siamo sulla Terrazza Nastro Azzurro, di fronte a una striscia di mare grigio, e Antonio e Marco Manetti, al secolo i Manetti Bros, mi raccontano quel che stanno cercando di fare con l’horror e la fantascienza qui in Italia: «Il rischio, a insistere con film come Shadow e At the end of the day, è che questi film sembrino prodotti americani di serie B, perdendo tutto l’appeal».
I due sono reduci dalla proiezione in Sala Grande del loro ultimo film, L’arrivo di Wang, accolto in mattinata da sei minuti di applausi di cui loro vanno fieri, ma con la consueta ironia: «Non siamo sicuri se si tratti di una cosa che capita sempre con tutti, perché per noi è il primo anno…». Loro che, a Venezia, non immaginavano nemmeno di venirci, con un film che assomiglia ben poco alle classiche proposte italiane da festival: un’opera di fantascienza (anche se tutta girata in un prosaico scantinato), con protagonista un alieno interamente realizzato in CGI.
Il film racconta infatti la surreale odissea di una interprete dal cinese (Francesca Cuttica) che, convocata per tradurre in tempo reale una conversazione tra un agente di polizia in borghese (Ennio Fantastichini) e un misterioso orientale, scopre che in realtà il suo interlocutore è una creatura con tentacoli e grandi occhi neri, catturata in una cantina del centro di Roma, e proveniente dallo spazio profondo. Di qui in poi il film diventa un lungo interrogatorio a tre voci (il che, in realtà, penalizza un po’ la fluidità del racconto: ogni cosa è detta, ripetuta, tradotta più volte) che coinvolge poliziotto, interprete e la bizzarra creatura. Un interrogatorio che porterà a un epilogo inaspettato.
«I film, quando li mostri alla gente, finiscono sempre per assumere significati a cui non avevi pensato: c’è addirittura chi ci ha detto che l’alieno che parla cinese rappresenta l’espansione dell’economia di quel paese, cosa che non ci era minimamente passata per la testa», mi dice Marco massaggiandosi la barba riccia e un po’ sbiancata. «Altre cose, invece, sono assolutamente consapevoli, come la volontà di muovere una critica a certi pregiudizi nei confronti delle forze dell’ordine».
Al di là del fatto che un film di fantascienza, in Italia, è cosa più unica che rara, l’altro elemento che salta all’occhio è la presenza di un personaggio interamente digitale, il che, per gli standard del nostro cinema, è addirittura un unicum: «Eravamo un po’ preoccupati all’idea di lavorare con la CGI. Sul set c’era questo piccolo signore cinese vestito con una tutina verde attillata, che effettivamente faceva un certo effetto. Ma poi tutto è andato per il meglio». Nonostante la tutina, il film non è stato realizzato con la tecnica del motion capture, mi precisa Marco: «Si tratta di una creatura digitale al 100%. Ci è voluto quasi un anno e mezzo di post-produzione, tanto che le società che se ne sono occupate figurano come co-produttrici, perché l’impegno di tempo, e quindi i costi sostenuti (il budget calcolato si aggira intorno al mezzo milione di euro, ndr), sono stati enormi per una produzione indipendente».
Con un anno e mezzo di tempo quasi-libero di fronte, i Manetti Bros non hanno sprecato un minuto, e hanno già girato un altro film, stavolta un horror: «Una via di mezzo tra uno slasher puro e un torture porn, in cui ci sarà ancora Francesca Cuttica, cui ne facciamo passare di tutti i colori, affiancata stavolta da Peppe Servillo. Sarà un film molto esplicito, ma penso che possa avere chance con il grande pubblico anche superiori a Wang». (foto di Luca Maragno)
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