Semplice ed efficace: è forte la tentazione di catalogare così Ghost Stories, all’apparenza uno degli horror più classici e rassicuranti che si siano visti negli ultimi anni. L’esordio alla regia di Dyson e Nyman sembra appoggiarsi senza troppa fatica sulle spalle dei giganti che l’hanno preceduto, nella miglior tradizione inglese – le influenze dei film targati Amicus sono evidenti e dichiarate – e non solo (nel film si sentono echi di Raimi, Carpenter e persino di culti minori come Session 9 di Brad Anderson). Un’architettura filmica quasi neoclassica che i due, che già hanno dimostrato di saper maneggiare l’orrore e il soprannaturale sia con la League of Gentlemen sia a teatro, si divertono ad abbattere a martellate nel terzo atto, dando vita a un’opera che riesce a essere lisergica e allucinante pur restando ancorata a un certo modo di fare paura del quale gli inglesi sono maestri già dai tempi delle Cime tempestose di Emily Brontë. Il vero segreto di Ghost Stories, infatti, eredità delle sue origini teatrali, è che è con ogni probabilità l’horror più non violento degli ultimi anni: non è facile fare paura senza mai mettere realmente in pericolo i propri protagonisti, ma Dyson e Nyman ci riescono senza neanche fare troppa fatica.
Merito della loro padronanza del genere, e più in generale della materia-cinema: Ghost Stories è un film fortemente sensoriale, fatto di dettagli decisivi piazzati ai confini dell’inquadratura, di svolazzi visivi che sfuggono a una prima visione, che gioca con un sonoro avvolgente e snervante e con una fotografia che si fa sempre più satura e psichedelica con l’incedere dei minuti, e che fa incontrare senza scontrare linguaggi antichi (jump scares, movimenti di macchina improvvisi a svelare qualcosa alle spalle di qualcuno) e suggestioni contemporaneee (l’intero film è una riflessione sul vero valore della razionalità, ma anche sulla tossicità che permea anche le vite apparentemente più normali).
Ma merito anche della voglia di Dyson e Nyman di spingersi oltre l’omaggio e di trasformare la ricerca della verità del professor Goodman in una spirale verso gli inferi nella quale tutto è in discussione, non solo per i protagonisti ma anche per gli spettatori. È diventato fin troppo facile parlare di “echi lynchani” tutte le volte che in un film entrano in gioco l’elemento allucinogeno e la destrutturazione del reale, ma è anche innegabile che, pur essendo un film che parla di razionalità e debunking di ciarlatani, Ghost Stories punti molto, quasi tutto sul ribaltamento delle aspettative e su un sottile senso di disagio che permea anche le sequenze più tradizionali. Come già succede con lo spettacolo teatrale, è impossibile proporre un’analisi completa senza entrare in dettagli che rovinerebbero la sorpresa, e Ghost Stories è un film che merita davvero di essere discusso ex post, come a un incontro segreto tra iniziati a un culto. Vi basti sapere che era da anni che non si vedeva un horror in grado di spaventare davvero con gli strumenti del mestiere più basici (facce allo specchio, botte di suono, oggetti che volano per la stanza), e che se si fosse limitato a fare il verso ai classici sarebbe stato comunque un ottimo prodotto. E invece c’è molto di più nascosto sotto la superficie: a questo punto il consiglio scontato è quello di tapparvi le orecchie e correre in sala, e farvi trascinare da Philip Goodman nella sua ricerca della verità. Se siete pronti…
Mi piace: il modo in cui Dyson e Nyman manipolano la classica materia horror e la mettono al servizio di una storia quasi lynchana
Non mi piace: ci vuole pazienza per “entrare” nel film: chi è abituato ai ritmi degli horror moderni potrebbe non avere vita facile
Consigliato a chi: ai fan degli “horror di una volta”, quelli targati Amicus Productions, e a chi ama i film che mettono in discussione tutto quello che mostrano
Voto: 4/5
Foto: © Adler Entertainment
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