Sembra sbucata da un’altra epoca Wonder Woman, il primo film in solitaria di una supereroina del nuovo corso dei cinecomic. E non tanto (o non solo comunque) perché ambientato durante la Prima guerra mondiale o perché racconta di amazzoni e dèi, ma in quanto sembra che nel quarto film del DCEU (l’universo condiviso DC), sia precipitato il candore del Superman di Christopher Reeve di fine anni ’70/inizi anni ’80; un’assenza di malizia e cinismo degni a tutti gli effetti dell’introduzione di una creatura semidivina o aliena.
La Wonder Woman di Gal Gadot possiede un’innocenza e una naïveté che, trasferiti al cinema dei nostri giorni, quasi straniscono. E d’altra parte non potrebbe essere diversamente per una bambina – come ci mostra il lungo flashback raccontato dalla Diana Prince di oggi – cresciuta in un’isola paradisica (Temyscira) ai confini del mondo, educata dalla madre Hyppolita (Connie Nielsen) a osservare un rigoroso codice morale, istruita attraverso i miti e che conosce solo la violenza simulata negli addestramenti di lotta con le sue compagne. Quando la spia Steve Trevor (Chris Pine) precipita nel mare dell’isola, lei gli salva la vita e scopre l’esistenza di un mondo dominato dalla guerra e di un istinto viscerale che la spinge a impedirla.
Patty Jenkins (Monster e la serie The Killing in primis) è ben consapevole della responsabilità sulle sue spalle, ovvero di introdurre attraverso un’origin story la prima supereroina della nuova era – con il compito di derubricare gli scivoloni di film come Catwoman ed Elektra e di fare da ponte all’imminente Justice League – e così sposa un ideale superomistico, che abbina la dolcezza, la capacità empatica e l’emotività tipicamente femminili alla determinazione e ad abilità molto badass.
Le scene di lotta sono coreografate molto bene, seppur con abuso del rallenty e del bullet time, con l’evidente desiderio di creare qualcosa di ibrido tra le arti marziali e la ginnastica artistica. Nell’insieme la Jenkins crea un film visivamente seducente (di grande impatto la prima scena di combattimento tra le amazzoni e i tedeschi), ma non trova però nei dialoghi il suo degno corrispettivo.
Quel candore di cui parlavamo all’inizio ha sostituito il cupo filosofeggiare dei primi film del DCEU e soprattutto di Batman v Superman, mescolandosi a toni più umoristici – in cui giocano bene la loro parte Chris Pine (perfetto come casting per fare da spalla alla protagonista) e una piccola banda di “bastardi” multirazziale pronta a tutto -, ma il confine tra naïf e semplicistico è labile. Disequilibri di registro che si evidenziano soprattutto nella difficoltà a gestire il mix tra toni spensierati e scene di battaglia dove compaiono soldati mutilati e altri orrori della guerra. Ma che sono anche la prova evidente di come la Warner stia correggendo il tiro, puntando verso un pubblico kid-adult con un mood che è distantissimo da quello di Nolan.
Fino alla prima importante battaglia del film, quella in cui Diana inizia a rivelare i suoi poteri e la sua incapacità a tollerare il dolore umano, liberando un piccolo paese belga, tutto fila via abbastanza liscio, nonostante i due villain un po’ stereotipati (il generale Ludendorff e la dottoressa Maru/Poison). E anche la scelta di spostare il campo d’azione dalla Seconda alla Prima guerra mondiale si rivela vincente, perché gli scenari più ampi e e una tecnologia bellica meno avanzata permettono a Gal Gadot di offrire una performance efficacissima nei combattimenti corpo a corpo.
Il tallone di Achille del cinecomic, che un po’ perseguita l’universo DC, è la difficile gestione in scena di creature sovrannaturali (come succedeva in L’uomo d’acciaio durante il combattimento tra Zod e Superman), in cui i due antagonisti si sfidano con estenuanti scazzottate che li spediscono a centinaia di metri di distanza e lancio di voluminosi oggetti che li colpiscono senza provocare il minimo graffio. Ma soprattutto la scelta di un cattivo inadeguato a vestire i panni di Ares, villain che per crudeltà e carisma dovrebbe avvicinarsi allo Thanos di Josh Brolin. Elementi che messi insieme non regalano lo scontro finale che quest’eroina meriterebbe.
Dove il film vince a mani basse, invece, è nell’aver modellato tutto il film addosso a Gal Gadot, perfetta per questo ruolo, per merito di una bellezza e una grazia assolutamente naturali, che la rendono speciale e magnetica rispetto a qualsiasi altra figura del film, quasi fosse davvero una dea tra gli uomini. La purezza d’animo e l’ingenuità del suo personaggio, a cui l’attrice riesce a fornire una credibilità assoluta, non sono solo funzionali alla narrazione, ma servono anche a sottolineare il contrasto Femminile/Maschile su cui la Jenkins insiste per tutto il film.
Da una parte c’è la superiorità morale coltivata dalle amazzoni dall’altra il maschio umano, incapace di superare le sue basse inclinazioni e sempre pronto a risolvere i problemi col fucile. Un trionfo di femminismo sbandierato a più riprese nel corso dell’azione che il papà dell’eroina, William Moulton Marston, avrebbe molto probabilmente apprezzato e che mira a regalare al pubblico rosa un modello più che positivo in cui rispecchiarsi.
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