Belle, il nuovo film di Mamoru Hosoda, sceneggiatore e regista d’animazione apprezzatissimo a livello mondiale, candidato all’Oscar nel 2019 per Mirai, sarà al cinema dal prossimo 17 marzo grazie ad Anime Factory (Koch Media) e I Wonder Pictures.
Il nuovo film del cineasta giapponese, già autore di anime dalla forte impronta poetica come Wolf Children e The Boy and the Beast, racconta questa volta di un mondo virtuale, U, in cui l’adolescente Suzu e molti altri milioni di utenti vino una seconda vita in rete totalmente alternativa a quella reale, portando così a un nuovo grado di compimento e ricerca formale e visiva il ragionamento sull’intelligenza artificiale che Hosoda tratteggia dai tempi del suo Summer Wars e ancor prima di Digimon. Avevamo incontrato Hosoda alla scorsa edizione del Festival di Cannes, dove il film era stato presentato in anteprima mondiale nella sezione Cannes Première, ed ecco cosa ci aveva raccontato.
Mr. Hosoda, cosa l’ha spinta a voler raccontare questa storia?
Per me questo film è una versione de La Bella e la Bestia all’epoca di Internet. Quando parliamo di Internet c’è sempre un dualismo, c’è il vero te nella vita reale e la versione in chiave di social network di te stesso, la versione di te che veicoli agli altri. La Bestia ha lo stesso dualismo, in fondo, come personaggio, è brutale ma anche sensibile, e mettere in correlazione questa doppia anima così contrapposta era per questo film la mia massima spinta e motivazione.
Parlando de La Bella e La Bestia, qual è per lei l’essenza di questa fiaba? Come può essere trasferita in un contesto così diverso e funzionare ugualmente?
Chiaramente trattandosi di una celebre fiaba francese del XVIII secolo è stata adattata tantissime volte, ma nel mio caso era proprio la Bestia il cuore del discorso, perché la sua innocenza risiede nel cercare di cambiare la sua natura per amore, nel momento in cui trova qualcuno da amare. Amo la fiaba originale, ma anche la versione di Jean Cocteau e quella di Walt Disney del 1991. Come persone in fondo tutti noi viviamo una doppiezza e una dualità, e cerchiamo di superare quest’essenza della nostra natura praticamente solo quando ci innamoriamo, è una condizione universale. Credo sia l’aspetto di maggior rilevanza di questa storia.
Il film è pieno di “finestre” che si aprono e si riversano le une nell’altre creando un tessuto di immagini, è qualcosa che non rimanda soltanto ai social network di oggi ma anche a fasi più primitive e lontane nel tempo della storia di Internet. Come ha lavorato all’aspetto visivo della tecnologia in questo film, e cosa l’ha ispirata in questo senso?
Come regista d’animazione arrivi sempre alla consapevolezza che tutto debba sempre essere più visivo di quanto già non sia, sicuramente deve esserlo molto più di quanto non possa essere verbale. Nel film ci sono situazioni ed eventi specifici che accadono e per visualizzare un’azione dinamica, quando parliamo di Internet, pensiamo quasi sempre all’interfaccia del browser che utilizziamo per navigare. Ma, se proviamo ad andare oltre quello strumento, scopriremo presto che magari c’è un mondo pronto a schiudersi davanti ai nostri occhi, come quello di U nel film. Un universo pieno di attrazioni, in relazione al quale bisognerebbe focalizzarsi sulle connessioni emotive e sociali che possono scaturire dall’uso delle proprie identità su Internet. Io vorrei che Internet fosse visto come qualcosa di positivo, anche perché è un elemento del quotidiano non più negoziabile, le nuove generazioni ad esempio non potranno più farne a meno.
Il film presenta molti temi importanti, romanticismo, identità, paure, ma quest’approccio “positivo” alla tecnologia è effettivamente l’aspetto primario di Belle e il più decisivo. Quant’era importante per lei raccontarlo?
Ora che tutti siamo connessi, Internet per certi versi ha alimentato molta solitudine e le persone che sono a lungo connesse sono più solitarie che mai. L’eccessiva connessione genera una solitudine che tutti possiamo sperimentare. Ciò che io mi auguro però è che la raffigurazione virtuale di noi stessi ci permetta di dare voce e di incoraggiare il lato reale della nostra personalità, alimentando sicurezza e autostima. La protagonista di questo film perde la madre in giovane età ed è incapace di superare un trauma, ma la virtualità la aiuta a prendersi cura di uno straniero del quale non sa nulla, né il nome né chi sia né da da dove provenga. La virtualità può essere il centro del mondo, se declinata nel modo giusto.
Le canzoni del film sono una pura esperienza cinematografica, tanto epidermica quanto immersiva, e dei veri e propri set pieces. Com’è arrivato a questo risultato, in cui ogni canzone ha una coreografia e un’idea visiva dietro così potente? Ci sono persone di cui non vediamo le facce, ad esempio, ma la folla è rappresentata al contempo come una sorta di oceano dorato.
Solo per le canzoni e le musiche avevamo cinque compositori, è un lavoro molto di squadra, ci si arriva accostando e fondendo insieme sensibilità molto diverse. Uno di loro, Taisei Iwasaki, ha studiato sceneggiatura all’università prima di diventare un compositore di colonne sonore ed è davvero abile nel creare degli score che somiglino moltissimo all’esperienza di vedere un film. Poi abbiamo avuto Ludvig Forssell, che ha lavorato al videogame Metal Gear Solid, e Yuta Bando, che è molto famoso in Giappone per il suo lavoro nella musica classica. A loro si aggiungono anche i contribuiti di Daiki Tsuneta e Miho Hazama. Venivano tutti da esperienze molto diverse, ma hanno collaborato tutti insieme a delineare l’identità musicale di U.
Foto di copertina: Getty (Pascal Le Segretain/Getty Images)
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