Nel 2008, con un’armatura rudimentale assemblata in una caverna, Iron Man ha dato il via all’Universo Cinematografico Marvel. Un viaggio che probabilmente nessuno, nemmeno lo stesso Kevin Feige, si sarebbe aspettato potesse durare così a lungo e riscuotere un simile successo.
Nel 2021, tocca a WandaVision aprire ufficialmente una nuova era. I Marvel Studios hanno affidato alla serie di Jac Schaeffer – alla prima esperienza come showrunner ma non come autrice di cinecomic, avendo firmato sia Captain Marvel che Black Widow – l’onere e l’onore di inaugurare un nuovo ciclo del MCU, che non è più Cinematografico nel senso stretto del termine, ma diventa Televisivo, approdando per la prima volta sul piccolo schermo e rimodellando se stesso sulle forme e sui tempi del linguaggio seriale. Adattandosi, dunque, a ritmi narrativi ben diversi da quelli a cui siamo stati abituati con le precedenti avventure pensate per la sala.
La storia segue i due eroi alle prese con un’idilliaca vita di periferia. E già dai primi minuti dello show, diventa immediatamente ovvio il motivo per cui nessun altro titolo tra quelli in arrivo – almeno dalle premesse – avrebbe potuto reggere sulle proprie spalle il peso di fare da apripista a tutti gli altri. Perché il messaggio che WandaVision manda al pubblico dei cinecomic è chiaro, oltre che dirompente: state guardando qualcosa che non avete mai visto prima. Una serie che per il suo incipit non sembrerebbe neanche prodotta dai Marvel Studios, se non fosse per il logo iniziale e per la presenza dei due personaggi già conosciuti nel MCU. Appunto, è un nuovo inizio.
Il secondo episodio, ispirato a Vita da strega, è costruito come una sitcom in bianco e nero ambientata negli anni ’50, con divertenti gag comiche, botta e risposta serrati, recitazione sopra le righe, pubblico in studio, comicità slapstick e look in linea con l’epoca. Ci sono più punti in comune con i palinsesti seguiti dalla nonna di un appassionato di cinecomic, che dall’appassionato di cinecomic stesso. Ma attenzione, non è un difetto.
Perché è proprio il matrimonio tra due mondi, due generi, due approcci alla narrazione formalmente in contrasto, a far funzionare questa formula. Ma soprattutto, il poter vedere per la prima volta quegli stessi eroi che solitamente sparano raggi mortali dalla fronte o sfere di energia dalle mani, alle prese con le situazioni più ordinarie immaginabili.
WandaVision non è altro che la dimensione umana del sovrumano. O come accennato dalla stessa showrunner, il lato dei supereroi che solitamente non si vede nei film di supereroi.
Sia chiaro, i protagonisti hanno comunque i loro poteri, solo che li vediamo fare da assist al quotidiano. E sebbene possa suonare inadatto a chi è stato cresciuto dai Marvel Studios a suon scazzottate, armature a propulsione, martelli della mitologia norrena con nomi impronunciabili e scudi in vibranio, sorprendentemente non lo è.
Anzi, WandaVision non è meno epico dei suoi predecessori. Solo che la sua forza non sta nella spettacolarità dei combattimenti o nella CGI mozzafiato – almeno parlando dei primi tre episodi -, ma nel portare un pubblico che ha premuto “play” su uno show supereroistico, a sperare, dopo qualche minuto, di continuare a vedere tutto fuorché gli stilemi del genere. Perché la verità è che si sta bene in periferia con le vite perfette di Wanda e Visione, dove niente è fuori posto e la minaccia più grande è l’arrosto bruciato.
Ma non siamo in una commedia romantica degli anni ‘50. E che questa sospensione dell’incredulità sia destinata a scemare, WandaVision ce lo ricorda continuamente inserendo in quel contesto idilliaco un climax di elementi destabilizzanti, fuori posto, sbagliati e angoscianti. Sicuramente legati ad una storia più complessa e oscura – non dimentichiamo che Visione è morto in Avengers: Infinity War, quindi cosa ci fa ora insieme a Wanda? – di quel che il suo incipit vorrebbe far credere.
Perché dopotutto, c’è qualcosa di strano se stiamo guardando una sitcom che è stata introdotta dal logo dei Marvel Studios…
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