Nelle terre selvagge al confine tra l’America e il Messico, un uomo con una sella in spalla cammina trascinando una bara. Un’immagine divenuta storia. La storia di un personaggio leggendario che a sua volta è la storia di un genere, il western all’italiana, padre di quelli che sono i codici di un cinema fatto per raccontare le gesta di uomini liberi, solitari, erranti. Ribelli dal grilletto veloce e dalle pistole fumanti.
È con l’uomo che trascina la bara che si apriva il Django di Sergio Corbucci, film del 1966 che negli anni ha ispirato decine di altre produzioni in tutto il mondo: dai tanti titoli derivativi del cinema italiano dell’epoca, fino ad arrivare al Sukiyaki Western Django del giapponese Takashi Miike e al Django Unchained di Quentin Tarantino. L’ultima operazione volta a riportare il pistolero sugli schermi sceglie il linguaggio della serialità e lo fa regalando al western un approccio contemporaneo.
Alla Festa del Cinema di Roma abbiamo visto i primi due episodi di Django, la nuova scommessa di un trio di autori tutto italiano. Alla sceneggiatura la coppia formata da Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli, mentre regia – delle prime quattro puntate – e direzione artistica sono in mano a Francesca Comencini.
Inutile fare confronti con la storia originale. La serie, ambientata tra il 1860 e il 1870, si discosta totalmente dalla vicenda raccontata nel film che aveva per protagonista Franco Nero. Qui seguiamo Django nella ricerca della figlia Sarah, scomparsa otto anni prima durante il massacro della sua famiglia. La ritrova a New Babylon, una piccola città utopica in cui tutti, a prescindere dal colore della pelle, dalla propria storia o dal proprio credo, sono accolti senza discriminazioni. Mentre il suo fondatore, John Ellis, è in procinto di sposare proprio la figlia di Django, la figura di una donna che rigetta i rivoluzionari ideali di uguaglianza di New Babylon inizia a creare scompiglio con una serie di atti violenti.
Siamo di fronte ad un racconto inevitabilmente differente dal materiale di partenza, ma anche e soprattutto di fronte ad una costruzione dei personaggi che si discosta dalla visione classica del western, dove l’antieroe è il riflesso di una mascolinità vigorosa e impenetrabile che lascia poco spazio all’introspezione, tantomeno all’emotività. Secondo Francesca Comencini, oggi come allora il western deve raccontare il presente. Così il nuovo Django, interpretato da Matthias Schoenaerts, pur mantenendo il suo alone di mistero, pur non facendosi mancare scazzottate, pistolettate e quant’altro, ha il coraggio di mostrare anche la sua fragilità interiore. È un Django tormentato dal suo passato e in cerca di redenzione, tenuto in vita solamente dall’amore per sua figlia, che insegue pur venendo respinto. È una visione contemporanea dell’uomo: forte perché capace di mostrarsi debole.
Ma lo sguardo moderno al western passa anche attraverso la centralità e il ribaltamento della dimensione femminile, resa in particolar modo dal personaggio interpretato da Noomi Rapace, una sorta di predicatrice cui spetta il ruolo di antagonista. Premessa: è una donna forte, che fa uso della violenza, che sta all’azione tanto quanto i colleghi uomini. Ma non si tratta di un personaggio femminile che, come spesso accade nelle produzioni più recenti, è banalmente costruito sulle ceneri degli stilemi maschili: Elizabeth lascia trasparire delle complessità e delle contraddizioni che, anche stando alle dichiarazioni della stessa attrice, promettono di andare oltre questo primo livello di rappresentazione, mettendo a nudo la psicologia di una donna in grado di restituire al pubblico un ritratto femminile strutturato e mai indulgente. Profondamente religiosa, guidata dall’odio verso chi percepisce come diverso e figlia di una mentalità patriarcale che lei stessa difende, Elizabeth incarna l’opposto della filosofia alla base di New Babylon, il conservatorismo della società dell’epoca, ma anche di quella attuale. Lei è sulla terra per punire i peccatori. E la mano di Dio, direbbe, è sulla punta della sua Colt.
Saloon, prostitute, rivoltelle, duelli di fuoco, nativi americani, ambientazioni selvagge: in Django, va detto, non mancano gli elementi più cari al western e numerosi omaggi al film di Corbucci e agli altri cult del genere. Ma a suo modo, pur partendo da una tradizione decennale, la serie trae la sua forza dallo svecchiamento del western, che diventa lo specchio di oggi e dei problemi che affliggono la vita contemporanea. Un approccio fresco, che messo al servizio di una scrittura non manchevole di tutti i presupposti per risultare coinvolgente e di un cast all’altezza della sua portata, è per il momento in grado di farci ben sperare per questa nuova operazione seriale.
Django è una produzione internazionale senz’altro ambiziosa, raffinata nelle immagini e pregevolissima nella sua realizzazione, e di questo va dato anche merito alla regia di un nome come quello di Francesca Comencini. Non si può dire, almeno a giudicare dai primi due episodi, che non sia una scommessa con tutte le carte in regola per essere vinta. E di certo, siamo tutti impazienti di scoprire cosa accade quando il pistolero con la bara incontra la predicatrice con la Colt.
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