Dracula è il ritorno di Steven Moffat e Mark Gatiss, una coppia in grado di segnare la serialità televisiva contemporanea come poche altre e che ora sceglie di cimentarsi con l’adattamento di uno dei romanzi più iconici della storia della letteratura, imbarcandosi in un’operazione decisamente rischiosa ma al contempo anche particolarmente interessante.
In televisione ci sono pochi autori più stimati di Steven Moffat, la cui penna è però da sempre stata interessata non solo alla creazione di storie originali ma anche all’esibizione delle proprie notevoli doti. L’umiltà, infatti, non è certo la caratteristica principale dell’autore scozzese (tanto che sia tra i fan sia tra i critici non mancano i suoi detrattori) e anche per questo il suo talento così esuberante non sempre riesce a trovare la quadratura del cerchio e in alcuni casi sembra innamorarsi troppo di se stesso e perdere il controllo dei prodotti.
Spesso si è detto, a ragione, che il meglio Moffat l’ha dato quando ha avuto al fianco una persona in grado in tenere la sua creatività sotto controllo e disciplinarla. È stato così in Doctor Who, dove uno dei migliori episodi (“Blink”) l’ha scritto quando lo showrunner era Russell T. Davies, mentre quando ha avuto il totale controllo della serie non sempre è stato impeccabile, anzi; ed è stato così in Sherlock, perché il duo formato insieme a Gatiss ha sempre dato l’impressione di avere grande completezza, mitigando le intemperanze creative di Moffat.
I due autori decidono di riscrivere Dracula partendo proprio dal format di Sherlock, costruendo quindi una stagione composta da tre episodi da un’ora e mezza nelle quali sviluppare la loro versione del celeberrimo romanzo di Bram Stoker.
Chi si aspettava un adattamento tradizionale probabilmente non conosceva i due autori e forse non aveva visto Sherlock, e infatti la miniserie targata BBC è una trasposizione molto personale della storia originale, pur mantenendo alcune delle tematiche che governano l’opera di Stoker.
La prima sostanziale differenza, che forse costituisce la caratteristica più importante di questo adattamento, riguarda la struttura narrativa scelta. Sebbene sia una trasposizione in tre parti di un romanzo andata in onda in tre serate su BBC e in un blocco unico su Netflix fuori dal Regno Unito, Dracula respinge in maniera nettissima ogni sorta di unitarietà. Ben lungi dall’essere un racconto unico e lineare, un 4,5-hour movie, la miniserie rivendica con forza la sua dimensione televisiva dando dignità, unicità e originalità a ciascuno dei suoi tre episodi.
(Da qui in poi spoiler)
“The Rules of the Beast” è quello con cui si apre lo show, ovvero una sorta di grande inganno, se visto a posteriori, perché in particolare nella prima ora sembra dichiarare (mentendo) una spiccata fedeltà al romanzo di Stoker, soprattutto per quanto riguarda il worldbuilding e la struttura narrativa. Il racconto retrospettivo che parte da Jonathan Harker riprende la natura epistolare dell’opera e in generale i due autori gestiscono l’episodio muovendosi con agio e creatività nel celebre castello del Conte Dracula, che diventa una sorta di microcosmo in cui esibire con consapevolezza tutti i cliché delle storie di vampiri, dai pipistrelli agli specchi, dalle bare al conflitto luce/buio.
Poi però Moffat e Gatiss iniziano gradualmente a far emergere il senso del loro lavoro, modellando la trasposizione fino a darle una forma molto personale, in particolare approfondendo la componente sessuale del vampiro e costruendogli accanto una Van Helsing magnetica in grado di tenergli testa senza problemi, soprattutto grazie a una serie sterminata di dialoghi fulminanti. Quello sviluppato dagli autori di Sherlock è quindi un Dracula che riesce spaventare e far ridere allo stesso tempo, un personaggio inserito in un mondo che dal passato parla al presente, come si evince dal finale del primo episodio in cui un gruppo di donne coraggiose si allea contro il protagonista e fa di lui il simbolo del patriarcato sanguinario e oppressivo.
“Blood Vessel” è invece qualcosa di completamente differente, oltre che l’ulteriore rivendicazione di indipendenza dei due autori rispetto alla materia letteraria, a partire però dalla volontà di esaltarla e omaggiarla. Moffat e Gatiss infatti prendono una sezione molto piccola del romanzo di Stoker (quella dedicata al veliero Demeter) e la espandono fino a costruirvi attorno un intero episodio.
Distanziandosi dalla puntata d’apertura, gli autori stringono il focus su quelli che poi diventeranno sempre più chiaramente i due protagonisti della miniserie: Dracula e Agatha. La loro è una partita a scacchi senza esclusione di colpi, messa in scena all’interno di un episodio molto metatestuale che omaggia Agatha Christie acquisendo così anche una dimensione ludica che tiene lo spettatore incollato allo schermo. Il vascello su cui viaggia il protagonista diventa il teatro di una serie di crimini che vengono mostrati di volta in volta come una detection, il cui mistero principale si trova nella stanza numero 9, facendo di questo episodio anche un omaggio a Inside No. 9, geniale (se questo aggettivo ha ancora senso, questo è il caso di usarlo) dark comedy targata BBC.
“The Dark Compass” è il terzo e ultimo episodio di questa miniserie, sicuramente quello più criticato, quello più divisivo ma anche quello più ambizioso. Non che i due precedenti non mirino in alto (il primo opera un sottile lavoro di adattamento che alterna con intelligenza fedeltà e tradimento; il secondo è un meccanismo ad orologeria capace di fare di un passaggio quasi insignificante dell’opera di Stoker un parco giochi estremamente intrigante) ma il capitolo conclusivo prova a portare il Conte Dracula fuori dal suo tempo facendolo letteralmente riemergere nel 2020, centoventitré anni dopo l’ultima sua sortita.
Moffat e Gatiss sorprendono tutti facendo ciò che avevano inizialmente negato, presentificando Dracula come hanno fatto con Sherlock Holmes, cambiando di conseguenza completamente il tono del racconto: spogliato della sacralità dell’adattamento (ci sono anche qui molti elementi del libro, ma è sicuramente la sezione che tradisce di più la materia prima) lo show si lascia andare a un registro grottesco e satirico, in cui l’estraneità del protagonista rispetto al presente (che somiglia un po’ a quella di Kimmy Schmidt ma elevata al cubo) diventa un’occasione per realizzare situazioni comiche a tratti molto riuscite (come le battute sulla televisione).
I due autori si cimentano in una sorta di parodia che si incastra perfettamente con il ritratto di un mondo difficile da incasellare nelle categorie tradizionali, ma al contempo riscrivono la mitologia del personaggio in un modo personale e decisamente interessante, collegando la paura nei confronti della croce alla fragilità dell’antieroe e i suoi atteggiamenti oppressivi al terrore per la propria mortalità. Anche il ritratto di Lucy (interpretata da Lydia West, già vista in Years and Years), per quanto non abbastanza approfondito da evitare alcune accuse di sessismo, è utile all’attualizzazione del discorso sul vampiro e alla risoluzione della partita tra Agatha e Dracula, perché la noncuranza verso la morte della giovane donna va a colmare, attraverso il suo sangue, il principale punto debole del protagonista.
Dracula è quindi una miniserie che si prende tanti rischi anche a costo di scontentare qualcuno, finendo per trovare un ottimo consenso critico in terra britannica (anche per quanto riguarda il terzo episodio), forte del credito guadagnato negli anni dai due autori. Il tutto è tenuto in piedi da Claes Bang e Dolly Wells, i quali offrono due performance di eccellenti, soprattutto perché capaci di incarnare perfettamente il registro dello show, riuscendo quindi a non prendersi mai fino in fondo sul serio.
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