Hollywood è il secondo progetto realizzato realizzato da Ryan Murphy per Netflix, facente parte di quel contratto milionario con cui l’azienda di Los Gatos si è garantita in esclusiva per cinque anni uno degli autori e produttori contemporanei più importanti e stimati in circolazione.
Proprio come in The Politician, Murphy (stavolta affiancato da Ian Brennan) ha le mani completamente libere e non si preoccupa dei rating e di piacere per forza, e questo vale sia per il pubblico che per la critica. Così facendo forse i risultati rischiano di essere più diseguali (ma con Murphy questo discorso è molto scivoloso perché i parametri valutativi sono molto difficili da stabilire) ma in compenso c’è una libertà d’azione tale da consentire all’autore e alla sua squadra di dire tutto ciò che vogliono, con un linguaggio peculiare e una sensibilità che non si pone il problema di incontrare per forza i gusti altrui.
Se nella serie con Ben Platt l’autore aveva sorpreso tutti adottando toni leggeri e spesso satirici, un linguaggio sofisticato che a qualcuno è parso manierista e una struttura narrativa ambiziosa e così fuori dagli schemi da risultare spiazzante, allo stesso modo Hollywood si presenta al pubblico in modo ingannevole, mostrandosi nel primo e in parte anche nel secondo episodio come qualcosa di molto diverso da ciò che poi diventerà con il susseguirsi delle puntate.
Diciamo subito che si tratta di una miniserie con un inizio e una fine ben chiari, ambientata nella Hollywood degli anni d’oro e composta da sette episodi la cui durata varia dai quarantacinque minuti all’ora piena. C’è quindi una struttura ben precisa, per certi versi quasi romanzesca, con un’identità narrativa che si prende del tempo prima di rivelare la sua vera natura e questo è sicuramente uno scoglio, perché è inevitabile dare un primo giudizio (seppur temporaneo) su una serie a partire dall’episodio d’esordio. In questo caso – e lo diciamo subito senza mezzi termini – il primo episodio racconta una storia molto più piccola rispetto a quello che poi sarà il focus della serie e il suo reale valore può essere capito solo a posteriori, una volta visto tutto il resto.
A partire dalla piccola vicenda di un aspirante attore, infatti, Hollywood allarga sempre di più il suo sguardo dando voce a una serie di figure che prendono piede all’interno della Los Angeles di fine anni quaranta e che rappresentano tutti i livelli della filiera dell’industria hollywoodiana e della vita losangelina.
Nel procedere della narrazione il progetto di Murphy e Brennan si fa sempre più chiaro e circa verso la fine del terzo episodio diventa evidente come al centro del racconto si posizionino i punti di vista di persone appartenenti prevalentemente a categorie marginalizzate e oppresse, che passo dopo passo conquistano sempre più spazio in una Hollywood Classica che assume contorni sempre meno realistici e più utopistici.
Grazie a una writers’ room molto diversificata, composta da tante donne accanto ai due creatori, tra cui anche Janet Mock, donna nera e trans già tra le autrici di Pose, Hollywood opera una vera e propria operazione di revisionismo magico, in cui immagina un contesto industriale, culturale, sociale e creativo in cui razzismo, sessismo e classismo sono problemi a cui poter opporsi con la forza delle idee e della determinazione, dando così l’occasione ai personaggi di realizzare nella finzione ciò che sembra impossibile fare nella realtà.
La serie mette in questo modo anche in evidenza le principali contraddizioni e le più terrificanti oppressioni che caratterizzano la società occidentale e l’industria dello spettacolo in particolare, ieri come oggi, e attraverso una serie di statement, di pratiche attive e grazie alla capacità di spiegare concretamente l’insensatezza delle discriminazioni riesce a costruire uno scenario sicuramente lontano dalla realtà ma molto concreto e tutt’altro che campato in aria.
Hollywood è un sogno ad occhi aperti, è una serie che incarna alla perfezione quell’idea di cinema come fabbrica dei sogni, come macchina ideale per costruire e modellare l’immaginario collettivo, andando così a cogliere la natura profonda di questa forma espressiva e di intrattenimento. Un ruolo che il cinema ha sempre avuto, ma che stavolta si manifesta attraverso lo sguardo di chi è da sempre stato escluso.
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