House of Cards, la recensione della sesta e ultima stagione
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House of Cards, la recensione della sesta e ultima stagione

Dopo l'uscita di Kevin Spacey è Robin Wright a portare a termine lo show con grande personalità, dimostrando che avrebbe meritato molto pià spazio

House of Cards, la recensione della sesta e ultima stagione

Dopo l'uscita di Kevin Spacey è Robin Wright a portare a termine lo show con grande personalità, dimostrando che avrebbe meritato molto pià spazio

Robin

House of Cards è finita e sotto alcuni punti di vista si tratta della fine di un’era. Quasi sei anni fa Netflix esordiva nel mercato delle produzioni originali proprio con questa serie, segnando quello che oggi consideriamo a buon diritto il primo passo di una marcia trionfale fatta di crescita costante.

In principio la serie è stata presentata come il tentativo di Netflix di fare concorrenza ad HBO, proponendo una versione aggiornata di quality television grazie alla presenza di un regista cinematografico molto apprezzato (David Fincher), attori di altissimo livello (Kevin Spacey e Robin Wright su tutti), una materia prima di partenza nobile (il romanzo di Michael Dobbs) e un tema come la corruzione nella politica americana a legittimare la qualità del prodotto.

Se durante la prima stagione il consenso critico è stato molto alto, anche per via dell’effetto novità e della scalata al potere del personaggio di Frank Underwood, nel corso delle successive la serie ha progressivamente smesso di essere interessante per il pubblico americano e internazionale, in particolare perché la figura del protagonista sembrava sempre più onnipotente e si faceva molta fatica ad essere coinvolti da una storia in cui, in un modo o nell’altro, Frank l’avrebbe sempre fatta franca, perché in fondo era il più intelligente, il più astuto e il più corrotto.

Le accuse di molestie sessuali arrivate a Kevin Spacey (confermate dall’attore) un anno fa hanno mandato House of Cards in grande crisi e per un attimo sembrava che la serie dovesse essere cancellata. Netflix ha scelto di non voler in alcun modo associare il proprio nome a Spacey ma allo stesso tempo ci ha tenuto a difendere il proprio prodotto e, dopo averlo messo per un po’ in stand by, gli ha garantito una sesta e conclusiva stagione, interamente sorretta da Robin Wright.

È sotto questa luce che vanno letti questi otto ultimi episodi, che come prevedibile rappresentano una scossa creativa non indifferente per una serie ormai da anni priva di attrattiva e dalla scrittura decisamente ripetitiva. Con Claire nel ruolo di Presidente degli Stati Uniti d’America e unica protagonista l’intera prospettiva narrativa dello show cambia e questo è già a prescindere un fattore positivo. La reazione della politica e dei media a una donna per la prima volta nella storia alla Casa Bianca è messa a fuoco sottolineando con precisione gli imbarazzanti tentativi di limitare il potere di Claire e quindi evidenziando il pesante sessismo presente non solo nei palazzi del potere ma anche nella società americana.

Per quanto il plot della stagione sia abbastanza contorto e spesso sconclusionato – anche se non al livello dell’annata precedente – il focus principale stavolta è di natura smaccatamente metatestuale. La stagione parla sempre di Kevin Spacey e ancora di più in sua assenza. In questo suo atto finale House of Cards racconta la tossicità di una figura così ingombrante attraverso l’alter ego Frank Underwood e soprattutto la quantità di desideri e rivendicazioni prima sommersi e che adesso lo spazio da lasciato dall’attore ha fatto emergere. Vedere Claire Underwood annichilire i propri rivali con la stessa astuzia che un tempo aveva il marito è al contempo eccitante e disturbante, perché non essendo abituati a vedere questi stessi comportamenti associati a una donna il corto circuito è inevitabile e sotto questo punto di vista lo show centra perfettamente l’obiettivo.

House of Cards si era presentata come la serie che rompeva la quarta parete per parlare con lo spettatore, ma il modo in cui lo faceva Kevin Spacey nei panni di Frank Underwood era in realtà soprattutto un vezzo e poco altro. Stavolta invece il dialogo che Claire intrattiene costantemente con lo spettatore ha un ruolo fondamentale, diventando il centro di uno show che prima ancora di raccontare una storia racconta la sua storia, quella della sua conclusione, quella della sopravvivenza alla dipartita del protagonista e quella di una donna, Robin Wright, che ha avuto il coraggio di prendersi tutta la responsabilità richiesta.

Ogni volta che Claire dice “me too” sta in realtà dicendo anche #MeToo, ogni gesto che fa e ogni azione politica che compie prima di avere un incidenza sulla trama della stagione hanno un funzione fortemente empowering, come quando dà vita al primo all-female cabinet della storia degli Stati Uniti d’America. 

Con House of Cards se ne va un pezzo fondamentale della serialità contemporanea, non certo una delle eccellenze degli ultimi anni ma sicuramente uno degli show più importanti. Gli autori e le autrici riescono a lasciare la scena con un ultimo colpo di coda esplicitamente femminista, sfruttando a proprio vantaggio quella che sembrava una pietra tombale dimostrando di saper fare di una situazione di crisi un’opportunità.

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