Hunters recensione della serie sui Gloriosi bastardi guidati da Al Pacino
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Hunters, la recensione della serie sui Gloriosi bastardi guidati da Al Pacino

Lo show ideato da David Weil sulla base dei racconti della nonna sopravvissuta ai lager nazisti è un tripudio di estetica tarantiniana, riferimenti ai comics e look/soundtrack Seventies, che racconta le vicende di un gruppo di ebrei che cerca di impedire la nascita di un Quarto Reich in America

Hunters, la recensione della serie sui Gloriosi bastardi guidati da Al Pacino

Lo show ideato da David Weil sulla base dei racconti della nonna sopravvissuta ai lager nazisti è un tripudio di estetica tarantiniana, riferimenti ai comics e look/soundtrack Seventies, che racconta le vicende di un gruppo di ebrei che cerca di impedire la nascita di un Quarto Reich in America

Hunters recensione

Meyer Offerman è a capo di una banda di cacciatori di nazisti nella New York di metà anni ’70. Nascosti sotto mentite spoglie, i barbari protagonisti del Terzo Reich stanno per tornare con un nuovo piano.

David Weil ha creato per Amazon Prime Video uno show tv in dieci puntate basandosi sui racconti della nonna, sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz.
Il giovane protagonista, Jonah Heidelbaum (Logan Lerman) è una sorta di alter ego fittizio di Weil e, proprio dal rapporto con l’anziana parente, la narrazione si evolve in una cruda e sanguinaria caccia ai nazisti occulti, coloro che vivono nell’ombra per nascondere gli abomini del passato e che tramano per un ritorno dell’ideologia hitleriana e l’instaurazione di un Quarto Reich.

La genesi di Hunters è intrigante soprattutto sulla carta. Al Pacino nei panni del sopravvissuto ebreo Meyer Offerman è la stella che guida un manipolo di vendicatori, dei “Glorious Basterds” che nel percorso evolutivo della serie subiscono il contesto confuso e sguaiato nel quale agiscono.
Le citazioni e i richiami al cinema di Quentin Tarantino sono evidenti e smaccati.
Hunters richiama Kill Bill in diverse scelte cromatiche e nell’ispirazione di alcune caratteristiche spalmate nei personaggi. Sia i Cacciatori che i personaggi marginali alla narrazione esprimono ciascuno alla perfezione uno stereotipo ben preciso di profili già riscontrati in diversi film e serie prodotte in passato.
L’atmosfera pulp che richiama i b-movie tanto cari a Tarantino e l’aspetto cool di alcuni protagonisti – in particolare Lonny Flash e Roxy – sono le caratteristiche ricorrenti dello show, che si evolve in un divertissement comunque piacevole, al netto dei numerosi difetti.

Particolarmente rilevante nel corso degli episodi è il rapporto tra Jonah e Meyer. Allievo e mentore si trasformano in veri e propri alleati contro il crimine, come Batman e Robin, a cui si fa esplicito riferimento in molte sequenze. New York che diventa una Gotham City da difendere da villain che si celano nell’ombra e sono pronti a rinascere, in un continuo gioco di maschere.
Il lato comic e pop è marcato in Hunters, che rimescola elementi già trattati in molte pellicole precedenti cercando di renderli particolarmente accattivanti nella forma in cui vengono proposti allo spettatore. Il legame tra Jonah e Meyer si rivela fondamentale nelle dinamiche principali della serie, che scivola via attraverso passaggi interlocutori e un paio di twist spiazzanti. Il finale, infatti, regala diverse svolte inaspettate che possono essere considerate preludio allo sviluppo di un’ipotetica seconda stagione, al momento non ancora confermata.

L’impressione che si ricava da Hunters è quella di un assemblaggio di professionalità dal ricco background – incluso Jordan Peele tra i produttori – e di volti noti, come il già citato Pacino e Logan Lerman (Noi siamo infinito, Fury) e Josh Radnor (il Ted di How I Met Your Mother), ma il cui potenziale non vien sfruttato come si sarebbe potuto.

Tra gli aspetti più interessanti dello show c’è il continuo porre ai suoi personaggi grossi dilemmi morali, facendo implicitamente riflettere anche lo spettatore sul tema del farsi giustizia da sé. Ha ragione il Meyer di Pacino quando dice “La miglior vendetta è la vendetta” o il fatto di trasformarsi in sadici vigilantes assottiglia il confine morale tra vittime e carnefici? 

Quello che sembra mancare alla serie di David Weil è un generale equilibrio nel corso degli episodi. L’obiettivo di trattare un argomento delicato, ma pieno di spunti interessanti, appare troppe volte fuori fuoco nella sua espressione grottesca e violenta, seppur svolga appieno il ruolo d’intrattenitore. Tale disordine infatti riesce da un lato a disimpegnare lo spettatore con discreta efficacia, ma dall’altro a sprecare totalmente diversi momenti clou che avrebbero meritato una gestione migliore.

 

 

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