WandaVision, prima serie dei Marvel Studios, ha immediatamente creato uno standard per il MCU e i suoi orizzonti seriali. Ha catapultato lo spettatore in una zona grigia nella quale erano le sitcom e il nostro sguardo su di esse – ma anche, incredibilmente, quello dei personaggi – a gettare le fondamenta di un’idea di condivisione, fondata sull’acquisizione e la metabolizzazione del dolore e della perdita. The Falcon and the Winter Soldier ha fatto, subito dopo, qualcosa di diverso, di più tradizionale, legato al concetto di eredità da tramandare come lascito politico fondamentale.
Sentimenti archetipici, fondamentali, perfino essenziali (nella doppia valenza che è possibile dare a questo termine: semplicità come sostanza) e dei quali la Marvel si è fatta intimamente carico entrando – di petto, ma anche di peso – nel mondo delle serie tv, la più grande forma di prosa collettiva del nostro tempo. Adesso arriva Loki e si cambia ancora, tornando a lavorare sulla temporalità propriamente detta con un mood più selvaggio e pirotecnico rispetto a quanto fatto dalle due produzioni precedenti.
La terza serie della Fase Quattro segue le vicende del dio dell’Inganno nel momento in cui esce dal cono d’ombra del fratello Thor, dopo gli eventi di Avengers: Endgame. Loki ha rubato il Tesseract soffiandolo ai Vendicatori e viene ora catturato dalla Time Variance Authority (TVA): un’organizzazione che pre-esiste rispetto alle categorie di spazio-tempo ed è incaricata di monitorare le linee temporali e le loro violazioni, con la stessa solerzia con cui l’asgardiano, diventato lui per primo una Variante, è capace di distinguere le illusioni dettagliate – immaginifiche e autoprodotte – dai fac-simile da lasciarsi scivolare addosso.
I primi due episodi di Loki hanno la piacevolezza di certi procedural: si mandano giù tutti d’un fiato, senza alcun intoppo lungo il cammino, e prefigurano scenari futuri e «gloriosi propositi» ancora tutti da configurare. La sensazione è quella di un serial che ha sposato appieno l’anima del suo protagonista, che ha violato ogni sacralità per scorrazzare liberamente e obbedire a ben poche idee all’insegna dell’ordine narrativo stantio e delle sovrastrutture polverose.
Loki, come il personaggio incarnato da uno straripante Tom Hiddleston (eccessivo ma attento a non straripare oltre certi bordi), si concede battute sulla Goldman Sachs che coesistono con robot antropomorfi (affini, più che alla Marvel, a un’idea disneyzzata di Star Wars) e inserti deliberatamente vintage e cartooneschi (della mascotte animata di nome Miss Minutes sentiremo probabilmente parlare molto). Non perde mai di vista un approccio da fantascienza cupa, alla Blade Runner, evitando tuttavia saggiamente di farlo pesare e senza sterili confronti in termini di respiro.
La sensazione è che su questa commistione di registri toccherà continuare a interrogarsi, nei prossimi episodi. Anche perché i primi due confermano Loki come una serie chiamata a giocare decisamente a carte scoperte col patrimonio emotivo e audiovisivo del passato del MCU, con certi suoi errori più o meno cosmici (che il personaggio fosse perfettamente connaturato a uno spin-off, invece, lo sapevamo già).
I dialoghi e la confezione del bravissimo Michael Waldron (produttore di Rick and Morty e co-sceneggiatore di Doctor Strange in the Multiverse of Madness) hanno una certa aura filosofica (fincheriana, si dirà), ma non rinunciano mai alla piacevolezza della leggiadria della quale la Marvel, entro certe dosi e altrettanti salutari limiti, è maestra.
In più in Loki c’è il costante sottofondo di errori fatali da riparare, di una minaccia da scongiurare, di combustibili orali così forti che non serve essere appassionati di incastri e narratologia per lasciarsene inebriare. Si parla di storie che non sono le “proprie” storie, di viaggi nel tempo che sono sempre depistaggi. Di metafore che, come ogni forma di libertà, celano insidie anche quando chiunque, credendosi super-intelligente quasi quanto Loki nello smascherare la propaganda più invadente e tentacolare, giurerebbe sul contrario a occhi chiusi.
Nei primi due episodi, diretti come gli altri quattro da Kate Herron (Sex Education) ci sono le battute sulla (doppia) colonia di Tony Stark, i siparietti catchy e affilati tra Loki e l’agente Mobius M. Mobius di Owen Wilson (insolitamente composto, ambiguo e ancora tutto da decifrare), le schermaglie sentimentali appena accennate tra quest’ultimo e la giudice Ravonna Renslayer di Gugu Mbatha-Raw e ovviamente una sorpresa alla fine del secondo di cui nulla si può dire per non incappare in fastidiosi spoiler. Sulla detection story propriamente è forse troppo presto per esprimere un giudizio compiuto, ma la ridicolizzazione un po’ fosca e un po’ fumettistica della burocrazia del MCU per il momento è più che sufficiente e godibile.
Per tutto il resto sono in arrivo altri quattro episodi, che daranno un bel senso ai prossimi mercoledì estivi.
Foto: Marvel Studios (via MovieStillsDB)
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