Vedendo Maniac una delle prime cose che saltano in testa è come Cary Fukunaga avrà presentato il pitch ai produttori, quando la sua idea ha iniziato a circolare. Il pitch è in sostanza una breve descrizione della storia che verrà raccontata e del tono con cui sarà raccontata, e in questo caso avrebbe potuto essere: “Una misteriosa azienda farmaceutica testa una cura sperimentale su una depressa e uno schizofrenico, ma un computer impazzisce e prende tutti in ostaggio”. Non occorre essere molto avvezzi ai meccanismi industriali per rendersi conto che senza un regista-star come Fukunaga (True Detective) e due interpreti-divi come Emma Stone e Jonah Hill “attached” al progetto, le probabilità che andasse in porto sarebbero state molto basse. Ma il punto è soprattutto l’estrema libertà che oggi concede la televisione, una libertà diversa da quella del cinema indie, perché opera comunque nei limiti del mainstream e quindi di budget significativi.
Per farla ancora più semplice: una roba strana come Maniac, sostenuta una produzione così, oggi trova casa solo sul piccolo schermo.
D’altra parte Maniac nel menù di Netflix, ma anche più in generale in quello dell’intrattenimento domestico, fa la sua ottima figura, stramberia linguistica al confine tra mascherata e science fiction concettuale, figlio unico in mezzo a tanti gemelli procedurali, fantasy o drammatici.
Inquadrare il tono non è semplice, e in Rete si legge già di tutto: da Dick a Ballard sul versante letterario, per cascare su Gilliam in quello cinefilo. In realtà Fukunaga e Somerville (co-creatore, ed è lo stesso di The Leftovers) viaggiano su un piano di quasi realtà, futuribile ma sgangherata e devoluta (low-fi), che ricorda sì il lavoro dell’ex Monty Python ma soprattutto si aggancia a quello di David Lynch e Michel Gondry – Maniac è paradossalmente molto più “gondryesque” di Kidding – per il modo in cui la realtà slitta senza soluzione di continuità nel piano onirico per piccoli aggiustamenti.
Insomma, roba per palati fini ma soprattutto disponibili a svariate soluzioni di continuità stilistica, anche perché il naturalismo estremo e molto emozionante dei due giganteschi protagonisti (lo vogliamo dire che Emma Stone è la più talentuosa della sua generazione e Jonah Hill un fenomeno?) si scontra con la caricatura del personaggio di Justin Theroux, costantemente sopra le righe, gestito male in fase di scrittura e affossato definitivamente da una recitazione grottesca (forse qualcuno dovrebbe spiegargli che la sua passione per la commedia demenziale, da Tropic Thunder a Zoolander, non lo giustifica a certe performance).
Per fortuna, come detto, Emma Stone e Jonah Hill sono invece allineati: in mezzo a tanti scarti narrativi, in mezzo a tanti cambi di scenario, è proprio la loro amalgama interpretativa, il filo dei loro sentimenti che pian piano viene sciolto e compreso, a tenere attaccati alla storia, anzi, a definire la storia stessa, a mostrarne le ragioni.
In definitiva: è un’esperimento riuscito Maniac? Forse no, forse è più affascinante che riuscito, ma dentro di esso si può affondare, spalancare gli occhi, incuriosirsi e riflettere sulle potenzialità espressive di questa stagione pazzesca per l’audiovisivo, dove i confini della messa in scena possono essere messi alla prova anche in prodotti di grande impatto popolare, dove perfino la spettacolarizzazione dell’inconscio, o la sua riduzione in farsa, può fare rima con binge watching.
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