La seconda stagione di Narcos: Messico, disponibile su Netflix dal 13 febbraio 2020, riprende le fila del racconto da dove avevamo lasciato la serie, ovvero dalla morte dell’Agente della DEA Kiki Camarena interpretato da Michael Peña e dalla voglia di Miguel Ángel Félix Gallardo, il personaggio incarnato da un diabolico Diego Luna, di implementare la propria rete di potere e di portare avanti il suo percorso criminale. Stavolta Gallardo dovrà affrontare non solo le conseguenze delle sue azioni contro la DEA, ma anche il malcontento palpabile tra i suoi alleati: che cosa succederà al suo regno?
Il ritorno serie ideata da Carlo Bernard e Doug Miro, orfana di Camarena, punta tutto su Gallardo, contrapponendogli, in un gioco di pesi e contrappesi, la figura di Walter Breslin (Scoot McNairy), un altro agente DEA designato per far emergere il mandante dell’omicidio di Camarena. Breslin, investito anche della responsabilità di fare da voce narrante e di cucire insieme la fiction col materiale d’archivio, aveva già visto la luce nell’ultimo episodio della prima stagione e, per portare a termine il suo obiettivo, ha istituito l’Operazione Leyenda.
L’ascesa del cartello di Guadalajara negli anni ’80, quando Gallardo aveva unificato i trafficanti per dare vita al suo impero, lascia il posto in questo caso alle ceneri di quell’universo predatorio e ai suoi chiaroscuri, oltre che al declino inesorabile di un leader del malaffare. L’esasperazione della polarità tra legge e sua negazione, lungo i dieci, nuovi episodi, torna a essere uno dei cardini di questo modello di racconto audiovisivo: un’epica anti-eroica che ha consentito al filone di Narcos e simili di ritagliarsi una fetta consistente d’immaginario collettivo in termini di attrazione e fascinazione (ve ne parlavamo in quest’articolo), intercettando in parte i risvolti sociali del Messico di ieri e di oggi e mantenendo al minimo la soglia di repulsione.
Da questo punto di vista, Narcos: Messico soffre un po’ il bisogno congenito di smontare e intaccare un sottobosco che non può e non deve essere inossidabile, né tantomeno resistente a ogni crepa. Gallardo, a tutti gli effetti una tigre in gabbia in un mondo di lupi dalle intenzioni più o meno fameliche, deve fare i conti con un macrocosmo (il suo) prossimo al collasso, tallonato dall’eco della giustizia ma anche da smanie d’indipendenza economica da parte dei suoi sottoposti. Come fosse un capo politico a tutto tondo, il suo destino è segnato e non può non essere impervio, oltre che soggetto a influenze possibili e potenziali colpi bassi che gli piombano addosso da più parti, tra fiumi di cocaina e flussi oceanici di soldi sporchi.
Questi sviluppi, frutto di un groviglio intricato di sottotrame non tutte necessarie convogliate verso un abisso di dissoluzione e prevaricazione, portano Narcos: Messico, rispetto alla prima stagione, a smarrire giocoforza una buona dose di potenza. Sia perché il proverbiale effetto novità ne risulta scalfito sia perché ci si muove su sfumature più sottili che non sempre, però, sono mandate in porto col giusto quoziente di approfondimento psicologico e verosimiglianza (e la mancanza di Escobar, a lungo andare, si percepisce), lavorando d’accumulo nelle pieghe di questo sovrabbondante romanzo popolare bigger than life sul narcotraffico.
La messa in scena, ad ogni modo, regge l’urto: nonostante questo tipo di narrazione sia stato spremuto come se non ci fosse un domani negli ultimi anni, il prodotto di Netflix ribadisce una robustezza dell’apparato visivo e formale in grado di tenere insieme denaro, violenza e abbrutimento della sopraffazione umana. Con una compattezza che sa come far quadrare il cerchio e trovare, anche negli eccessi, la misura di uno stile ormai tanto riconoscibile quanto influente e pervasivo: un’iconografia gangster amplificata da una deformante e impietosa lente d’ingrandimento.
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