Tra gli autori che si sono imposti sulla scena italiana al cinema nell’ultimo decennio, le personalità che hanno fatto più parlare di sé sono senz’altro Fabio e Damiano D’Innocenzo. Dal loro esordio con La terra dell’abbastanza, ma ancora di più dal 2020 con Favolacce (che li ha portati all’Orso d’Argento alla Berlinale), i due fratelli costituiscono forse gli unici registi ad aver raggiunto lo status (nel loro piccolo) di icone a tutto tondo.
A partire dal loro sguardo, che nel bene e nel male è sempre estremamente riconoscibile, oltre ad aver ispirato più di un regista della generazione successiva, i D’Innocenzo, pur rimanendo cantori degli emarginati e della Roma più periferica, più volte sono usciti dalla mera dimensione cinematografica, esplorando territori ignoti, dal loro legame con la moda (Gucci in primis) fino alla recentissima incursione nel videoclip per niente di meno che Kanye West.
La serialità, per quanto in formato ridotto, si dimostra un’ulteriore sfida per i giovani registi: da Paolo Sorrentino con The Young e The New Pope fino all’Esterno Notte di Marco Bellocchio, anche gli autori italiani vogliono mettersi alla prova con storie di più ampio respiro, con un medium la cui differenza con la settima arte si sta assottigliando, ma pur sempre con delle specificità ben distinte.
Fabio e Damiano D’Innocenzo compiono questo passo molto prima dei maestri già citati grazie a Dostoevskij, una caccia al serial killer che vede Filippo Timi nei panni di Enzo Vitello, detective dal passato a dir poco turbolento ossessionato da questa misteriosa figura, il cui nome è ripreso dal titolo della miniserie.
Già da un primo stralcio di sinossi emergono gli stilemi classici della narrativa crime, schema che ben si adatta alla confezione seriale, come dimostrano fortunati esempi recenti (True Detective su tutti): dal passato oscuro dell’investigatore fino alle modalità di agire dell’assassino seriale, che poi conducono a una presa di posizione del protagonista che decide di continuare le indagini in solitaria.
I registi difatti non hanno come primo focus l’intreccio, bensì l’inscenare in maniera efficace e inusuale la dimensione interiore di Enzo Vitello, in modo che il suo dramma interiore vada a pari passo con il degrado dilagante della periferia in cui si svolge il racconto. Questo intento si può senz’altro definire riuscito, ancor di più rispetto ai loro lungometraggi, all’interno dei quali talvolta i loro modelli e autori d’ispirazione erano troppo ravvisabili, distogliendo l’attenzione dalla loro personale voce ed esigenza.
Se ci si sofferma maggiormente sulla scrittura, l’operazione Dostoevskij si fa più claudicante. Per quanto Filippo Timi, come Elio Germano in passato, abbia saputo incarnare sia il marcio che la malinconia del proprio triste archetipo, le interazioni e gli scambi tra i personaggi sfociano più volte nel caricaturale, facendo uscire lo spettatore dalla dimensione di realismo inseguita dai due autori. Inoltre le più distese temporalità seriali schiacciano il volutamente esile esoscheletro, rendendo quasi sfiancante la visione dell’intero prodotto audiovisivo in una singola sessione.
Dostoevskij rappresenta quindi al momento un unicum nella serialità nostrana, cercando di proporre un approccio a un genere in saturazione poco adottato in Italia e soprattutto con un’impronta cruda e singolare, per quanto la sua sovrabbondante durata (sulle cinque ore) e qualche dialogo non centrato col mood dell’opera non portano la miniserie ad essere esente da debolezze.
Foto: Sky
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