The Romanoffs, otto episodi tra Woody Allen e David Lynch. La recensione
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The Romanoffs, otto episodi tra Woody Allen e David Lynch. La recensione

Dal creatore di Mad Men Matthew Weiner, una serie antologica che spazia tra i generi, viaggiando tra l'Europa e le Americhe. Non tutto è perfetto, ma il progetto è affascinante e complessivamente riuscito

The Romanoffs, otto episodi tra Woody Allen e David Lynch. La recensione

Dal creatore di Mad Men Matthew Weiner, una serie antologica che spazia tra i generi, viaggiando tra l'Europa e le Americhe. Non tutto è perfetto, ma il progetto è affascinante e complessivamente riuscito

Christina Hendricks in The Romanoffs

Se oggi parliamo di serie tv come di un laboratorio creativo ogni tanto vale la pena fare un esempio a prova di dubbio.

Prendiamo allora The Romanoffs, il ritorno di Matthew Weiner tre anni dopo la fine di Mad Men. Il titolo farebbe pensare a un period drama, cioè a un dramma in costume che racconti le vite dei membri della dinastia imperiale russa, salita al potere alla fine del XVI e lì rimasta fino alla Rivoluzione d’Ottobre del 1917, quando i bolscevichi fucilarono lo zar Nicola II e gran parte della sua famiglia. Più di tre secoli di storia e un album ricchissimo di intrighi e personaggi, un’opportunità creativa gigantesca quanto démodé, più adatta al prime time di una tv di stato (vedi alla voce “I medici).

Weiner, ingaggiato da Amazon, naturalmente fa tutt’altro. Immagina cioè che dalle scelte dei famigliari fuggiti dalla Russia prima della Rivoluzione d’Ottobre si generino decine di destini, tra gli Stati Uniti e l’Europa, e che quei destini si incarnino adesso, ventunesimo secolo, in personaggi per lo più infelici, o comunque instabili, la cui eredità di sangue è poco più di un’ombra. C’è di conseguenza una ambizione asciugata, una malinconia trasversale, a volte un’esplicita vena di follia, che è l’unica traccia comune alle storie raccontate. Su questo filo rosso Weiner costruisce un’antologia di racconti da 90 minuti, trasformando il pretesto in scene di genere: la rom-com, il giallo, l’horror, il melodramma, tutto incartato in uno sguardo cinico e divertito che richiama spudoratamente il cinema di Woody Allen (Expectation in particolare, ma anche The Royal We e The Violet Hour).

Riassumendo, abbiamo: un titolo che rimanda a un’idea di televisione tradizionale e ingombrante; l’intuizione di ribaltare quella premessa in una serie di ritratti contemporanei, scegliendo per lo più uomini e donne sull’orlo di una crisi di nervi; la scelta finale di ridurre il nome Romanoffs a pretesto per un’esplorazione dei generi che assume la forma di un’antologia di film autoconclusivi da novanta minuti, in cui la rivoluzione d’ottobre torna periodicamente, impalpabile, in forma di fantasma, o eco. Lo vedete il laboratorio?
È un tipo di libertà che può appagare o innervosire, ma è anche l’indice che il territorio dello streaming e della serialità continua ad allargare i propri confini.

Archiviato il senso creativo dell’operazione, andrebbe detto qualcosa sulla riuscita dei singoli episodi, che ovviamente sono diseguali. Allora, premesso che anche in quella diseguaglianza sta la ricchezza del progetto, non ci sottraiamo alla questione.
L’episodio più bello è il settimo, End of The Line, su di una coppia americana che viaggia fino a Vladivostok per adottare un bambino attraverso un orfanotrofio locale: funziona a meraviglia l’alchimia tra protagonisti e l’idea politica emerge con grande forza (il twist finale è fantastico). L’altro episodio “politico” è il quinto, Bright and High Circle, su di un insegnante di pianoforte accusato di comportamenti inappropriati; è una riflessione ovvia quanto pertinente sul rischio della caccia alle streghe nell’epoca del MeToo (una delle cui storie ha toccato anche Weiner), con belle sfumature e l’unico difetto di essere fin troppo programmatica in tutti gli snodi.

Gli altri episodi lavorano sulla strizzata d’occhio cinefila e il piacere superficiale della cartolina (specialmente in Panorama e The Violet Hour), ma Expectation e House of Special Purpose si distinguono per qualità della scrittura, della messa in scena e delle interpretazioni. Quest’ultimo episodio in particolare, scritto con la collaboratrice storica di David Lynch Mary Sweeney, è effettivamente un bell’omaggio al regista di Twin Peaks. A margine: dei quattro episodi più interessanti, i due migliori (il quarto e il settimo) – e sono gli unici – non annoverano Weiner tra gli sceneggiatori. Magari qualcosa vuole dire.

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