True Detective 3 - La recensione
telegram

True Detective 3 – La recensione

La terza stagione della serie di Nic Pizzolatto si conclude con un finale al di sotto delle aspettative, che conferma però la mutata dimensione narrativa della serie e l'identità autoriale del suo creatore

True Detective 3 – La recensione

La terza stagione della serie di Nic Pizzolatto si conclude con un finale al di sotto delle aspettative, che conferma però la mutata dimensione narrativa della serie e l'identità autoriale del suo creatore

Mahershala Ali e Stephen Dorff in True Detective 3 - Copyright HBO

True Detective è uno dei più severi baluardi del vecchio concetto di palinsesto, contro la moda del binge watching: non solo la scrittura di Nic Pizzolatto predilige tempi dilatati e continue ellissi, ma questa specie di stillicidio narrativo è imposto da sempre con cadenza settimanale. In fondo ci vuole un certo coraggio, si pretende dal pubblico fedeltà e pazienza, e persino una memoria all’altezza di quella dei due detective protagonisti: tre linee temporali (alla fine addirittura quattro), una decina di personaggi da maneggiare e quasi altrettanti possibili colpevoli.

In realtà, a finale consumato e conti fatti, ci si accorge che questa terza stagione è tutta un gioco di prestigio al contrario: nonostante il gran sventolare di fazzoletti nel cilindro non c’è nessun coniglio. Per questo va prima smaltita una certa delusione e la frustrazione del nostro istinto da investigatori, soprattutto per il mancato allacciamento tra le tre annate, una delle tante false piste seminate dagli sceneggiatori. Accantonata quella, tocca prendere atto che Pizzolatto è un autore e come tale resta ossessionato dagli stessi temi: gli effetti del tempo sulla memoria, ma anche viceversa, cioè l’idea che la memoria e gli affetti compiano sul tempo una concreta deformazione, lo chiudano in un cerchio. È un cambio di prospettiva radicale, chiede in sostanza di non ragionare sulla storia come se fosse un meccanismo, di affrontarla invece come un labirinto sentimentale in cui il crimine è il fulcro di molte altre vicende in definitiva perfino più rilevanti.

È soddisfacente? Forse no. Forse avremmo tutti preferito che da qualche parte nel season finale spuntassero fuori due invecchiati Cohle e Hart a spiegarci come Hoyt e la sua ciurma di maniaci si legassero alla loro vecchia indagine. Forse sarebbe stato più divertente un colpo di scena a un metro dai titoli di coda, che inchiodasse Amelia svelandoci il senso di una serie di indizi che ci eravamo persi fin lì. Forse. Ma forse sarebbe stato invece un tradimento. Forse il vero colpo di scena di True Detective 3 è questa paradossale assenza di colpevoli “finali” che obbliga Hays e West, e ancor più lo spettatore, a convivere con le proprie scelte: l’omertà per quieto vivere, la violenza fascista sui sospettati e, per contrasto, una generale, masochistica ritrosia nei rapporti umani con amici e familiari.

Va quindi compiuto, dopo tre stagioni, un atto di onestà intellettuale: più drama che thriller, True Detective ha disperso via via la sua vena soprannaturale, la sua ambiguità di genere, che in fondo – diciamocelo – era la parte più affascinante del brand. Quindi inutile continuare a cercarla. L’ha barattata con una generica attitudine metafisica, scegliendo di perdersi in un groviglio di sentimenti e ricordi, di tracciare scorciatoie imprevedibili tra epoche lontane, provando a sbozzare dal nocciolo duro e informe del dolore il senso di due vite.

© RIPRODUZIONE RISERVATA