Anche io, ieri, come tanti altri, ho provato per la prima volta Disney+. Da un punto di vista tecnico la piattaforma non ha punti deboli né mostra particolari guizzi di fantasia, l’interfaccia e le funzioni sono molto simili a quelle di Netflix, tutto funziona come dovrebbe e si trova dove te lo aspetti. Il costo è competitivo, e il numero di device collegabili a un singolo profilo – e di download contemporanei – è piuttosto generoso. Quello che cambia veramente con Disney+ è l’esperienza che si prova navigando il catalogo; questa parte del processo è nella maggior parte delle piattaforme alienante, il catalogo è sterminato e formato per lo più da titoli meno noti, così si finisce per passare molto tempo saltando da una proposta all’altra senza decidere.
Con Disney+ è il contrario, il catalogo è un po’ più contenuto (anche se non certo come quello di Apple+, che ha una decina di titoli in tutto) ma ha una percentuale altissima di classici popolari e blockbuster recenti, e questo crea un senso di familiarità che rende la navigazione più consapevole e gratificante, diciamo “intima”. Il discorso riguarda naturalmente la penetrazione sociale di Disney, i cui film sono un po’ come i cerchi del tronco di un albero, hanno segnato l’invecchiamento della gran parte di noi ed è facile associarli a un periodo particolare della nostra storia personale: scorrere il catalogo di Disney+ è come sfogliare un album fotografico di famiglia.
Così dunque ho fatto anche io ieri, fermandomi alla fine sul primo film in assoluto che io abbia visto in sala, non per merito mio ma dei miei genitori. Era il 1979, avevo tre anni, e in una sala del centro storico di Padova davano The Black Hole, Il buco nero. Non avevo più rivisto il film da allora, fatta eccezione per qualche spezzone su Youtube delle poche scene che mi si erano stampate a fuoco nel cervello, come tutto quello che ci colpisce a quell’età. Avevo passato la maggior parte del tempo in braccio a mia madre e dormendo, per cui non erano molte. Mi ricordavo bene i titoli di testa e alcuni momenti del finale, in particolare un meteorite che rimbalza dentro l’astronave spaccando un ponte che i protagonisti stanno attraversando, e una sparatoria nella serra, che però ero convinto aprisse il film.
Rivedendolo ho scoperto che si tratta di una specie di versione sci-fi dell’Isola del Dottor Moreau, ambientata però su una nave spaziale che staziona al limitare di un buco nero, un concetto così paradossale, scientificamente parlando, che se ne può trarre la misura di come sono cambiate le priorità degli sceneggiatori nel frattempo. Il finale, con il passaggio attraverso il buco nero, assume connotati misticheggianti e quasi orrorifici, tra 2001: Odissea nello Spazio e L’aldilà di Fulci (o, se volete, Punto di non ritorno), ma gli effetti speciali sono datati e il film è invecchiato quattro volte peggio del capolavoro di Kubrick. La cosa più buffa, nonostante un design di produzione per il resto notevole, restano però gli assurdi “occhioni” dell’androide V.I.N.C.E.N.T. e del suo omologo scassato, che visti oggi ricordano quelli delle auto in Cars e che all’epoca ignoravano la lezione contenuta nel geniale design di R2-D2 (Guerre stellari era arrivato nelle sale due anni prima).
Più del film però conta la sensazione che affrontare una storia che non vedevo da quarant’anni mi ha lasciato: una sensazione di distaccamento e una grande malinconia, come se avessi estratto dal terreno uno dei picchetti che mi tenevano ancorato alla mia infanzia. Rivedere The Black Hole mi ha fatto tornare alla mente il parcheggio vicino alla chiesa degli Eremitani dove avevamo parcheggiato, la vecchia auto di mio padre, i dispenser con le caramelle e le sigarette accanto alla cassa del cinema, l’odore della sera di una primavera di fine anni ’70. I prossimi in lista sono Red & Toby e Basil l’investigatopo, e via così, viaggiando a ritroso. Questo potere “da madeleine” evidentemente è solo del catalogo Disney+, è un vantaggio competitivo costruito in quasi cento anni di storia, cioè coinvolge 5 generazioni di esseri umani: non si può battere.
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