Quel pomeriggio di un giorno da cani
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Quel pomeriggio di un giorno da cani

Quel pomeriggio di un giorno da cani

Dì un po’: conosci l’inglese?

Prima di prendere in mano i pennelli dovrai leggere questo!». Il produttore di Quel pomeriggio di un giorno da cani accolse nel suo ufficio il pittore Renato Casaro con queste parole, ancor prima di comunicargli il titolo del film di cui avrebbe dovuto realizzare manifesti e locandine.

Aveva lanciato sulla scrivania una copia della rivista Life del 1972 contenente un articolo di Thomas Moore e P.F. Kluge, The Boys in the Bank, che raccontava la clamorosa rapina in banca a Brooklyn, oggetto del film del 1975 diretto da Sidney Lumet e scritto da Frank Pierson, che vinse l’Oscar alla miglior sceneggiatura originale nel 1976.

«I fatti avvennero in un momento storico in cui il popolo americano scendeva in piazza contro la guerra in Vietnam», racconta Casaro. «Era chiaro che nel manifesto dovessi riprodurre quella rabbia, quel sentimento di contestazione che era vivo in tutto il Paese. Decisi quindi di fare una composizione: un mix di foto e pittura. Presi una fotografia di scena della folla che, fuori dalla banca, inneggiava al rapinatore Sonny dopo avergli sentito urlare “Attica!”, il nome del penitenziario dove nel 1971 scoppiò una rivolta. E poi dipinsi il viso enorme di Al Pacino, che interpretava il protagonista, e un fucile».

Casaro aveva letto l’articolo di Life e buona parte della sceneggiatura, e possedeva abbastanza elementi per comprendere che tutto si sarebbe dovuto giocare sul personaggio di Sonny Wortzik, un veterano del Vietnam che tentava quella rapina per pagare l’intervento di cambio di sesso al suo compagno Leon.

«La gente conosceva già quel volto», ricorda il cartellonista.

«Il pubblico aveva visto Al Pacino in Serpico e Il padrino: era sicuramente l’elemento più importante che si potesse mostrare. L’espressione del viso però non doveva essere da uomo spietato, come sarebbe stato invece qualche anno dopo con il Tony Montana di Scarface, ma da uomo quasi rassegnato.

La grandezza del volto fu decisa dalla produzione. Mi dissero: “Devi trasformarlo in un dio che appare e parla alla folla”.

Il fucile accanto a lui consentiva, invece, di comunicare che nella pellicola c’era molta azione e che Al Pacino, anche questa volta, non avrebbe deluso i suoi fan».

© Courtesy of Renato Casaro

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