Red, nuovo film d’animazione della Pixar disponibile dall’11 marzo su Disney+, narra la storia di Meilin “Mei” Lee, una tredicenne in piena tempesta ormonale che una mattina si sveglia trasformata in un enorme panda rosso. Come sua madre le spiegherà, i loro antenati nutrono infatti un antichissimo legame mistico con la bestia, che ha provocato in Mei un difetto genetico. Diretto da Domee Shi, al suo esordio alla regia dopo aver vinto l’Oscar col cortometraggio Bao nel 2019 e prima donna a dirigere un film Pixar in solitaria, questo lungometraggio aggiunge un altro, colorato tassello all’esplorazione dell’adolescenza e delle “emozioni forti” portata avanti negli anni dalla factory d’animazione di Emeryville.
Siamo infatti di fronte a una parabola sulla necessità di controllare la rabbia e di scendere a patti con le ferite della pubertà, quasi come fossimo dentro a uno spin-off di Inside Out di Pete Docter, qui produttore esecutivo e sempre più spirito guida e maître à penser di tutto lo studio. Red è però spogliato però di ogni componente cerebrale per far posto a boy band ammiccanti – i 4* Town, adorati da tutte le ragazzine del film, e parodia di tanti gruppi ormai sepolti nella memoria collettiva sotto la coltre della nostalgia teen –, fantasie erotiche giovanili che prendono vita direttamente dai propri disegni, con pirotecnico e lancinante imbarazzo, e ipocrisie e aspettative familiari da scrollarsi di dosso per fiorire come esseri umani e impedire che diventino un cappio.
Il monito è certamente tanto edificante quanto invadente e il messaggio per teenager inciso a caratteri cubitali, ma lo slancio surreale e metaforico, che declina in chiave ironica e cartoonesca persino il sopraggiungere del ciclo mestruale, è perfetto per raccontare “rossori” e imbarazzi della crescita. In Red siamo in a Toronto, in Canada, nei primi anni 2000, ma il film si pone palesemente a cavallo tra la sensibilità orientale e quella occidentale, tanto nei sistemi di valori proposti quanto nei risvolti legati alla tecnica dell’animazione, e l’equilibrio dal punto di vista visivo e concettuale è tanto energico quanto rutilante, con coreografie martellanti ma mai invadenti associate a una misura e un’equidistanza in grado di parlare di giovinezza con la giusta deferenza.
Da parte della Pixar è evidente la volontà, dopo l’italiano Luca di Enrico Casarosa, di mettere da parte dei concept troppo ingombranti per dedicarsi con minore ambizione a coming of age tanto semplici e lineari quanti radicati in delle precise radici culturali e identitarie, con dalla loro degli archetipi mostruosi ma teneri, capaci di lavorare anzitutto sull’universalità. Il cuore di Red, in questo senso, è decisamente il rapporto tra Mei e l’autoritaria e fin troppo apprensiva madre Ming Lee, che si prende cura del santuario di famiglia pulendo e accogliendo i visitatori e vorrebbe fare quasi lo stesso con la figlia, senza rendersi conto di stritolarla con le sue eccessive ambizioni: la donna sogna ad esempio per la ragazzina un futuro da segretario generale dell’ONU, in virtù del suo alto profitto scolastico, ma è pronta a negarle con eccessiva solerzia e irreprensibilità gli svaghi più elementari.
Il risultato è un racconto femminista che non è solo il primo film Disney a parlare apertamente di assorbenti e implicazioni concrete legate alla mutazione del corpo delle donne, ma anche un invito agli adolescenti di tutti il mondo a guardarsi allo specchio, a convivere con eredità troppo ingombranti senza smarrire la propria voce, a preservare il tempio della propria insopprimibile unicità così da esserne guardiani e non semplici, occasionali visitatori.
Foto: Pixar Animation Studios, H Brothers, HB Wink Animation, Walt Disney Pictures
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