Due uomini sono chiusi in una cabina sferica, circondati dai cavi, bloccati in una tuta, spinti giù da una specie di scafandro. Con loro, nella plancia di comando, è entrata una mosca. La pancia metallica del razzo cigola, sotto pressione, come le pareti di un sottomarino schiacciate da un muro d’acqua. La separazione tra la vita e la morte sono una manciata di giunture tenute assieme da bulloni grandi quanto un polpastrello. L’altimetria è segnata da un display analogico che ricorda una vecchia sveglia.
Damien Chazelle opera in Il Primo Uomo – la storia della lunga avventura scientifica e umana che conduce all’allunaggio degli americani, tra il 1962 e i 1968 – la riappropriazione estetica di un genere, smonta cioè il dispositivo sci-fi (enorme astronavi luminose e asettiche, spostamenti lunghissimi in tempi risibili) per riportare l’immaginario del viaggio spaziale alle sue origini storiche e materiali, o almeno a una versione plausibile. Non che ci sia poi molta matematica nel film, così come all’opposto c’è poca politica, poco contesto storico, è più una questione ambientale (scenografica) e una visione. Il punto è raccontare con il massimo realismo possibile l’esperienza fisica ed emotiva di un gruppo di uomini che compiono un viaggio senza precedenti – e tra loro di uno in particolare, Neil Armstrong (Ryan Gosling).
Così le riprese dei diversi voli di prova, poi della missione Gemini 8 (il primo aggancio in orbita di due navi spaziali) e infine dell’allunaggio dell’Apollo 11, sono veri e propri tour de force estetici e sonori, roba da attaccarsi con le unghie alla poltrona, e niente di più distante dalle abitudini del cinema “spaziale”, che invece si riaffaccia in altri cliché molto più terreni – nelle feste in piscina, nei barbecue, nei dialoghi a tavola del gruppo di piloti e delle loro famiglie. Soprattutto incombe sugli astronauti un costante e macroscopico rischio di morte, perché ogni esperienza è prototipica, ogni test serve a eliminare un problema, e la maggior parte dei problemi sono mortali (la missione finale viene preparata quasi come un funerale). Un’enorme parte del film si esaurisce in questa suspense e in questi ambienti.
Tutto questo rende Il primo uomo un film che assomiglia a lungo a un assedio e a uno slancio, il meno popolare dei film di Chazelle. Prima e dopo questo cuore futurista, invece, la storia si distende e apre. Sono poco più di dieci minuti in testa e in coda e sono i momenti in cui ritorna il conflitto presente in tutta l’opera di questo giovane e straordinario autore romantico, quello tra la missione/visione dell’uomo e la tutela degli affetti. Da questo punto di vista, anzi, è forse il primo suo film che si possa definire perfettamente sentimentale, cioè compiuto in un ricongiungimento e non in una separazione (Janet e Neil Armstrong resteranno assieme altri 26 anni dopo l’allunaggio e prima del divorzio). C’è anche altro, in questo territorio familiare, che completa il senso del viaggio e del film, ma qui non ve lo diremo.
Lungo, stordente, alla fine dolcissimo, ma dopo aver insistito imperterrito su una nota del tutto diversa, Il primo uomo è un lavoro grandioso, potente, ripiegato sul passato ma moderno nel linguaggio, quello di un digitale de-potenziato, semi-documentario. Probabilmente il lavoro più compiuto di Chazelle (servirà un’altra visione almeno), ma anche quello a cui è più complicato abbandonarsi.
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