Nel 1702 Anna Stuart (Olivia Colman) diviene Regina di Inghilterra, Scozia e Irlanda. Non ha figli: un disturbo noto come Sindrome di Hughes la costringe a 17 aborti consecutivi. Ad ogni aborto si fa portare un piccolo coniglio bianco e lo chiude in una delle tre gabbie che tiene nella sua stanza. Sono i suoi “piccoli”.
Nasce il sistema parlamentare bipartitico: le decisioni sono l’esito di una contesa tra tory e whig, e la contesa è soprattutto gioco di conquista dell’umore della Regina.
Scoppia una guerra con la Francia.
In una corte senza uomini, governata da una sovrana depressa e malata di gotta, il potere pende nella mani della “favorita”, Sarah Churchill (Rachel Weisz). Moglie di un whig, Sarah è amica, confidente, consigliera, amante e voce della corona. Ma quello della favorita non è un diritto di nascita né un titolo nobiliare, piuttosto una circostanza, un’affinità. E quando a corte si presenta una cugina caduta in disgrazia, manipolatrice e disposta a tutto – Abigail Masham (Emma Stone, altra nomination in arrivo) -, una battaglia per la successione, del tutto diversa, è pronta a scatenarsi.
È ancora una volta maniacale il controllo che il greco Yorgos Lanthimos (The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro) esercita sulle sue immagini, che qui hanno echi di Sofia Coppola, Terrence Malick e il solito Kubrick. Affonda i personaggi negli ambienti, li sommerge, fin quasi a sparire, fra soffitti a cassettoni, arazzi, divani e specchiere, poi li sbalza fuori doppiamente vividi. Formalismo e natura, quadro barocco e realismo spettrale: le immagini sono così ambigue che corrispondono a un enigma, o un trucco. Nella farsa in costume ogni volto è una maschera, ogni capigliatura una parrucca, ogni scelta un tranello, ogni gioco un doppio gioco, ogni battuta di spirito un affronto e una sfida. Perché in un mondo amministrato dagli uomini, dove una donna senza denaro e titoli nobiliari è trattata peggio di un cane – ma il comando supremo è femmina -, il potere è l’unica opportunità di una vita decente, e il raggiro l’unica opportunità di potere.
Non c’è niente da ridere eppure si ride, la forma del mondo è il grottesco, e a vedere i film di Lanthimos sembra escluso ne possa esistere un’altra. Il suo metodo è l’autopsia, il suo verso una risata isterica, la sua cautela inesistente: tentata e subito abbandonata a favore dell’effetto comico, del dettaglio decadente, dell’ipotesi che sia tutta pazzia.
Che servizio dovrebbe rendere tutto questo a una storia, ai suoi personaggi, agli attori che li interpretano e infine agli spettatori? Ecco, si potrebbe temere un pessimo servizio, come qualcuno pensa dei film precedenti del greco. Invece è eccezionale, e qui come mai prima. Eccezionale scrittura, eccezionali interpretazioni, eccezionale messa in scena, eccezionale intrattenimento.
Alla fine di tutte le immagini, alla fine del testo, alla fine delle didascalie fighette, questo Lanthimos, irregimentato da uno script non suo, ha trovato la misura definitiva del suo cinema e un pubblico pronto ad abbracciarlo.