Affiancare Kirill Serebrennikov, regista russo dalla china esondante e con pesanti precedenti con il proprio Paese, a un soggetto come quello di Limonov – The Ballad, ricostruzione in bilico tra realtà e finzione dell’omonimo scrittore e attivista, appare estremamente antitetica quanto convincente sulla carta per il medesimo motivo.
Il passato giudiziario del cineasta, perseguito e condannato al carcere anche per la sua vicinanza al mondo LGBTQ+, si unisce allo scenario bellico del presente, che, non solo ha intaccato le riprese, ma si lega ulteriormente al personaggio in quanto nato a Dzerzhinsk, al confine con l’Ucraina.
Un progetto, quindi, che dopo essere passato per diverse mani (da Saverio Costanzo a Pawel Pawlikowski) sembra aver trovato la persona giusta e lo spazio temporale adeguato per poter raccontare nuovamente con allarmante e lodevole esigenza la reinterpretazione di uno degli individui chiave del suo secolo, riprendendo con fedeltà il romanzo di Emmanuel Carrère.
Sono però sufficienti le sacrosante intenzioni per la buona riuscita del progetto? La risposta non è così scontata da conferire in quanto Limonov – The Ballad è un film sgangherato e confuso come il suo protagonista nella gran parte della sua odissea, tra la Russia, gli Stati Uniti e la Francia.
L’opera combatte continuamente tra l’opprimente e schematica struttura da biopic contemporaneo e i numerosi tentativi del regista di infrangerla: cambi di formato, rotture della quarta parete, inserti provenienti da media più arcaici e pirotecniche sequenze che raccontano eventi cardine della Storia moderna in maniera certamente inedita. L’inventiva dell’intera opera è certamente da premiare, ma non bastano a schiacciare parzialmente il prodotto, che risulta invece spento e artificioso.
La forzatura più evidente riguarda la scelta della lingua inglese, onnipresente nel corso del film e raramente messa da parte, scelta che inevitabilmente avvicina al progetto una maggiore natura di merce, di un’opera che necessita di raggiungere il più vasto pubblico possibile piuttosto che attenersi al realismo quantomeno per la propria base espressiva.
Questo si ripercuote indubbiamente sulla performance di Ben Whishaw, mattatore assoluto che domina lo schermo, ma il cui stereotipato accento conferisce al personaggio un’eccentricità superflua, relegandolo a archetipo gigionesco che ricalca in maniera fin troppo consapevole un modello di anarchico della settima arte estremamente reiterato, con ben visibili echi al Travis Bickle di Taxi Driver come all’ultima versione di Joker.
L’impressione con Limonov – The Ballad è proprio quella di rocambolesca farsa formalmente variegato, dotato di più espedienti riusciti e interessanti, ma che perde di vista l’obiettivo principale di mettere a fuoco a dovere contraddizioni e reali zone d’ombra del discusso prestanome.
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