Nian (Zhou Dongyu) si sta preparando per l’esame di ingresso all’università dove la concorrenza tra studenti è fatale e il bullismo fa una vittima, che si getta nel vuoto a scuola. Tutti, immediatamente, corrono a riprendere la scena, in un impeto di voyeurismo da gelare il sangue nelle vene. Nian diviene l’oggetto delle attenzioni delle bulle della scuola e, mentre il test si avvicina, la sua unica speranza è il teppistello Bei (Jackson Lee), che diventa il suo custode.
È la storia alla base di Better Days, il film cinese di Derek Kwok-cheung Tsang che si è aggiudicato l’ultima edizione del Far East Film Festival, tenutasi online, portandosi a casa il Golden Mulberry Award (ovvero il Gelso d’oro) davanti al secondo e terzo classificato, rispettivamente il malese Victim(s) di Layla Zhuqing Ji e il taiwanese I WeirDo di Ming-yi Liao (che avevamo recensito qui). Il primo premio è stato assegnato sulla base delle preferenze degli spettatori, che hanno avuto la possibilità di votare i film in tempo reale per tutta la durata del festival (il film ha vinto anche il premio Black Dragon, mentre il Gelso Bianco alla migliore opera prima è andato alla commedia coreana Exit, con menzione speciale al connazionale Beasts Clawing at Straws).
Una vittoria arrivata proprio in vista del traguardo, visto che Better Days era il film di chiusura ed è stato proiettato nella stanza virtuale del festival giusto ieri sera, dopo aver sbancato con otto premi (tra cui miglior film e miglior regia) alla 39esima edizione degli Hong Kong Film Awards ed essere stato ritirato dalla scorsa Berlinale, dove avrebbe dovuto figurare, a causa di un probabile veto posto dalle autorità cinesi. Restie, come di consueto, all’idea che un lungometraggio dall’impatto così forte sul pubblico, e al contempo così critico verso la società del paese, venisse visto oltre i confini patri.
Perché Better Days lavora a mani nude all’emotività dello spettatore senza rinunciare ad ampie spolverate di note critiche, ai danni in questo caso di un sistema educativo e morale al collasso. Si potrebbe pensare, con un po’ di malizia in parte legittima, che si tratti davvero di uno dei quei prodotti col marchio della denuncia sociale incorporato: un film sul bullismo di quelli in cui tale virgolettato è quasi un trademark registrato.
Tuttavia, a dispetto delle didascalie iniziali e finali a incorniciare un messaggio già di suo scandito a lettere cubitali (e forse dettate dall’esigenza di mediare con le autorità cinesi), Better Days intavola un racconto con dalla sua una purezza e un’urgenza (sic) di fronte alle quali si rimane piacevolmente scossi, spesso sbalestrati, non di rado tramortiti. La radiografia antropologica (altro cliché pasoliniano d’obbligo in questi casi) non è calata dall’alto, ma preferisce dedicarsi con passione ai primi piani sempre mossi a commozione e mai a temperatura ambiente della protagonista, sulla falsariga di tanti maestri del cinema che qui sarebbe però ridicolo scomodare.
In Better Days si sottolinea piuttosto il conflitto (o meglio: il confine labile) tra l’imperfezione obbligata dei ricordi del passato e l’abitudine alla malinconia presa a pugni della violenza quotidiana («This was our playground. This used to be our playground»), si lavora su un tour de force di romanticismo e volti in rapida successione nel quale il vitalismo va a braccetto con la disperazione: nell’ideogramma del titolo pare di scorgere un teschio, il mélo vive di baci pesti e insanguinati, crescere equivale a tuffarsi in un fiume e chiudere gli occhi incuranti della ghiaia e dei detriti perché in fondo, come viene detto, siamo cresciuti tutti così. C’è anche una scena immancabile in questo tipo di coming of age dolorosi, quella della rasatura coatta dei capelli, già vista di recente in Favolacce dei fratelli di D’Innocenzo e nella mini-serie Netflix Unorthodox. Ma soprattutto ci sono il sudore e le lacrime, le ellissi brutali e le confessioni a cuore aperto, l’enfasi e gli umori, soprattutto fisici.
Non manca insomma quasi nulla in Better Days: il “fuoco e fiamme” e la cenere, i tatuaggi simili a cicatrici, i cortili dell’infanzia che sono, in realtà, precoci e impietose aule di tribunale dove gli ombrelli non riparano né dai raggi di sole di un domani migliore né, figuriamoci, dalla pioggia scrosciante. Il senso della misura e l’economia narrativa latitano, nelle quasi due ore e venti di durata, eppure è un cinema che, con i suoi azzardi e le sue banalità (c’è anche la scena dell’acquario degli innamorati, in stile Romeo + Giulietta di Luhrmann: ma veramente?) vive di un materialismo pulsante, concretissimo e – dunque, forse – inattaccabile. Al netto di ogni cupezza marcata e asfissiante, una nera e crudele favola pop alla fine del mondo.
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