Los Angeles, di notte, Heather (Zoe Kravitz) attraversa Hollywood assieme alla sua assistente personale Jill (Lola Kirke). È una giovane star che ha appena messo in soffitta una love story: riceve brutte telefonate dall’ex, è seguita dai paparazzi, avvicinata senza cautela dai fan, corteggiata dai registi del quartiere. Dopo due locali e un po’ di karaoke con la nuova fiamma Tracy, Heater e Jill rincasano sulle colline, in una di quelle ville miracolose da cui intravedi tutta la valle, fino ai grattacieli della downtown. Salta fuori una pistola e forse c’è qualcuno in giardino: ai presagi seguiranno i fatti.
Gemini, presentato in concorso alla settantesima edizione del Festival di Locarno, inizia come una panoramica sentimentale e cinefila di Los Angeles: il tono incerto del racconto, la percezione di una minaccia che è sempre un passo oltre l’inquadratura, i diner strambi e le case di lusso, tutto rimanda alla metropoli onirica di Lynch, rivista con il romanticismo di Refn. Ma fa capolino anche De Palma e l’amore per i vecchi noir, giù giù fino agli anni ’50 (con una citazione – casuale? – da The Prowler di Losey). E quindi le parrucche e gli occhiali da sole, i detective tutti d’un pezzo e le femme fatale, le porte che nascondono segreti e le conversazioni origliate dietro una porta, le ombre intraviste alla fine di un giroscale o sbirciate dentro un armadio.
Girato con estro e scritto con la giusta consapevolezza postmoderna, sghignazzi metatestuali compresi, colorcorretto divinamente, con due protagoniste da cover story (Lola Kirke, vista da poco in Mistress America, è destinata a produzioni importanti a partire da Barry Seal, il prossimo film di Tom Cruise) Gemini è un’operazione che di questi tempi è destinata ai canali di streaming (si potrebbe scommettere che tra un anno lo ritroveremo su Netflix), eppure è un privilegio poterlo vedere su grande schermo in un Festival, perché ha un’anima perfettamente cinematografica.
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