Il Noir in Festival si sposta da Courmayeur a Como e Milano dopo 25 edizioni, ma almeno per il primo weekend mantiene il proprio carattere di manifestazione decentrata e assediata dal territorio, con le colline e il lago lariano che sostituiscono il Monte Bianco e le vallate alpine. Resta inoltre un’occasione imbattibile, almeno nel panorama italiano, per recuperare prima di fine anno una manciata di ottimi thriller e fantasy sfuggiti alle maglie (in verità piuttosto larghe) della distribuzione in sala.
Blood Father, il film che ha aperto il Festival, è una resa dei conti in pieno deserto tra una banda di narcotrafficanti e un padre che vuole difendere sua figlia, messa nei guai dal fidanzato. È un film essenziale e al contempo una piccola epica familiare, violento e divertente, assolutamente serio – il genere di cosa che sarebbe bello Stallone, Schwarzy e Bruce Willis facessero ancora, invece di prendersi in giro con action comedy imbarazzanti o pubblicità della telefonia. Un film pieno di malinconia, con un senso della fine che non ti molla un attimo. Mel Gibson – faccia da biker, muscoli da culturista e quella stanchezza orgogliosa del mondo che è solo delle vere rockstar – è pazzesco.
The Oath è invece una specie di glaciale revenge movie firmato da Balthasar Kormakur. Il nome del regista magari non vi dice niente, ma ne avete di sicuro sentito parlare. È un tizio islandese con la faccia e il fisico da uomo di montagna – una specie di Kusturica belloccio – che ha la straordinaria dote di fare tutti film da 7. Non da 5, non da 8, cioè mai brutti o eccellenti – tanto meno capolavori – ma tutti ampiamente sopra la sufficienza. Qualche titolo? Contraband, 2 Guns ed Everest (che aprì Venezia nel 2015), solo per citare i lavori americani. È roba che non ti fa mai guardare l’orologio, ma che ti dimentichi comunque il giorno dopo. Da quando ha iniziato a lavorare per Hollywood, ama tornare in patria periodicamente a gestire budget più piccoli.
In The Oath si riserva anche il ruolo del protagonista, quello di un padre (un altro) che per salvare la figlia, innamorata di un grosso spacciatore, finisce per iniziare una lotta senza esclusione di colpi con il ragazzo. Cinema spiccio ed esplicito (quindi non adatto agli impressionabili), in cui i panorami surgelati dell’Islanda fanno da contraltare alla rabbia dei protagonisti, tutti misteriosamente immuni al freddo nordico. Si cerca inoltre di mostrare le debolezze sia dei buoni che dei cattivi per evitare frettolose separazioni morali. Roba vecchia ma che continua a fare buon brodo.
Il permesso di Claudio Amendola, è uno di quei film ascrivibili ai tentativi indipendenti o semi-indipendenti di battere in Italia strade diverse dalla commedia e dal linguaggio mainstream dei soliti noti. Quattro ospiti del carcere di Rebibbia escono con a disposizione un permesso di quarantotto ore per buona condotta. Sono un padre che deve fare i conti con il figlio deciso a seguire le sue orme criminali (Amendola); un uomo innocente finito in galera per coprire una banda di malavitosi, e ora alla ricerca della moglie, trasformata dal boss in una prostituta (Luca Argentero); un ragazzo di borgata condannato per rapina (Giacomo Ferrara); e una 25enne di buona famiglia incastrata per traffico di stupefacenti (Valentina Bellè). Naturalmente nessuno dei quattro riesce a consumare i due giorni standosene buono, e un paio di storie finiscono per incrociarsi.
Il soggetto, di Giancarlo De Cataldo, è di quelli da stropicciarsi le mani, ma il film è troppo breve: 80 minuti divisi per 4, significa che ogni storia è un soffio di vento. Il segmento migliore è proprio quello di Amendola; mentre avrebbe avuto bisogno di più minutaggio soprattutto il racconto con protagonista Argentero. Raddoppiando questa metà ed eliminando l’altra con i ragazzini, il film poteva diventare un piccolo cult. Così è comunque un progetto con tante cose buone, che sembra giusto sostenere.
Iris è un thriller francese con Romain Duris tutto basato sui colpi di scena, in cui cioè i personaggi cambiano comportamento e ragioni – in pratica identità – ad ogni plot point. Ovvero: la moglie di un ricco banchiere scompare mentre il marito sta pagando il conto al ristorante. Solo che non è sparita, sta complottando con un uomo pieno di debiti per dividersi il proprio riscatto. Solo che… Eccetera. Il gioco appassiona per un’ora scarsa, poi tutto va avanti per altrettanto con il pilota automatico. C’è solo da notare che in Francia hanno, anche per film così mediocri, standard di messa in scena del cinema di genere che noi ci sogniamo. Quindi meglio non lamentarsi troppo.
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