Dopo lo sperimentale A Night of Knowing Nothing (2021), presentato alla Quinzaine des Cinéastes, la 38enne Payal Kapadia firma la sua opera seconda dedicandosi a un cinema più tradizionale ma anche più intimo, in cui a emergere è soprattutto una spiccate sensibilità femminile nel raccontare le vicende di alcune donne nella metropoli indiana, tra desideri sopiti e un’articolata geografia del desiderio e dell’accudimento.
Prabha (Kani Kusruti), un’infermiera del reparto psicologico dell’ospedale cittadino che vive a Mumbai e il cui marito è andato a vivere in Germania, cerca un posto in città dove Anu (Divya Prabha), la sua coinquilina, e il suo amante, il musulmano Shiaz (Hridhu Haroon), inviso alla famiglia indù della ragazza, possano finalmente fare l’amore. Le due donne si recano in una città costiera che diventa uno spazio libero per i loro sogni e progetti futuri.
Secondo film indiano in assoluto a essere presentato in Concorso nella storia di Cannes, a trent’anni di distanza dall’ultimo precedente, Swaham di Shaji N. Karun, All We Imagine As Light, che si avvale anche del contributo di Roberto Minervini in produzione, fin dal titolo è un film che riflette sulla ridefinizione della luce, elemento fondante della cinematografia che si presta a riflessioni ontologiche sulla natura stessa della settima arte (come suggeriva Jean Cocteau in uno dei suoi celebri aforismi: “Il cinema è la scrittura moderna il cui inchiostro è la luce”).
Kapadia, al suo esordio effettivo nel cinema di finzione, non ha però alcuna ambizione teorica e il suo è un film fatto soprattutto di istanze epidermiche, di sfioramenti e allusioni, di brandelli e lacerti di vita quotidiana che incrociano con sensibilità morbida e impalpabile le traiettorie esistenziali dei personaggi femminili al centro del racconto. Ne viene fuori un’opera che ha le sembianze di un’emanazione, di uno studio di caratteri che riesce a intercettare anche lo spaccato antropologico su una città tentacolare e inospitale e, inevitabilmente, anche su una porzione di mondo e di società ben definita.
Laddove un altro film del Concorso di Cannes, L’Amour Ouf di Gilles Lelouche con François Civil e Adèle Exarchopoulos, si concede qualunque digressione tamarra e sconsiderata nelle montagne russe del trash videoclipparo a buon mercato, nella (vana) speranza di settare un ipertrofico universo romantico, All We Imagine as Light rappresenta un approccio meravigliosamente agli antipodi, in cui lo sfiorare cauto di corpi e situazioni permette di accedere sottobanco a una meditazione esistenziale estremamente delicata e rarefatta ma, a suo modo, anche puntuale.
Un ruolo importante nell’economica cinetica di All We Imagine as Light ce l’hanno le musiche del giovane montatore e cantautore Tosphe, che raggiunge il suo personale apice sui titoli di coda, una volta che a riempire gli occhi, le orecchie e il cuore degli spettatori rimasti in sala c’è soprattutto il rimpianto malinconico per come le parabole narrative del film si sono andata ad assottigliare e infine a sciogliere in un ultimo, contemplativo abbraccio.
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