Laggiù qualcuno mi ama: Massimo Troisi, il nostro Truffaut. La recensione del film di Mario Martone
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Laggiù qualcuno mi ama: Massimo Troisi, il nostro Truffaut. La recensione del film di Mario Martone

Il documentario approda nelle sale oggi in occasione del 70° anniversario della nascita di Massimo Troisi

Laggiù qualcuno mi ama: Massimo Troisi, il nostro Truffaut. La recensione del film di Mario Martone

Il documentario approda nelle sale oggi in occasione del 70° anniversario della nascita di Massimo Troisi

Laggiù qualcuno mi ama Troisi
PANORAMICA
Regia
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Colonna sonora

Laggiù qualcuno mi ama è il viaggio personale di Mario Martone nel cinema di Massimo Troisi. Montando le scene dei suoi film Martone, nel suo documentario, vuole mettere in luce Troisi come grande regista del nostro cinema prima ancora che come grande attore comico e, per farlo, delinea la sua parabola artistica dagli inizi alla fine, inquadrandolo nella temperie degli anni in cui si è formato e nella città comune ai due registi, Napoli. 

Col montaggio dei film si intersecano alcune conversazioni, non con persone che frequentavano Troisi ma con artisti che lo hanno amato e ne sono stati influenzati, come Francesco Piccolo, Paolo Sorrentino, Ficarra e Picone, critici che lo hanno studiato, come Goffredo Fofi e la rivista Sentieri selvaggi, e due tra gli artefici della sua opera postuma Il postino, Michael Radford e Roberto Perpignani. Fa eccezione Anna Pavignano, che con Troisi scriveva i suoi film e che Martone vuole incontrare per indagare i processi creativi da cui essi scaturivano, e che collabora al film mettendo a disposizione dei preziosi materiali inediti, come diari privati di Troisi e addirittura il nastro di una seduta psicoanalitica in piena regola, con l’attore sdraiato sul lettino e intento a produrre flussi di coscienza sulla sua infanzia. 

Quella di Laggiù qualcuno mi ama è un’operazione meritoria di devozione cinefila e popolare al cinema del grande massimo Troisi, che ci viene immediatamente presentato in forma orale dalla voce di Martone, il quale ci informa di come a suo dire sia un cinema di pieni e vuoti, ora accesso ora stanco, “che la forma della vita”: un corpus di opere che avvicinerebbero Troisi al nostro Antoine Doinel del ciclo di film francesi di François Truffaut, nientepopodimenoche; e trattasi di uno dei totem più titanici della moderna nozione di cinefilia. 

Anche se Doinel era chiaramente meno divertente di Troisi, come precisa Piccolo, il senso di disagio identitario e dello “stare al mondo”, come direbbe il Jen Gambardella di Toni Servillo ne La grande bellezza, è esattamente lo stesso, tanto che le rispettive scene davanti agli specchi, con la giustapposizione proposta dal doc, fanno effettivamente impressione nel confronto Doinel-Troisi. E poi nei film della Nouvelle Vague, come spesso accade in quelli di Troisi, si corre

Sulle note di Je so’ pazzo di Pino Daniele ondeggiano immagini o per meglio dire immaginazioni politiche dalle strade di Napoli, ora violente ora terremotate dopo il sisma del 1984: divagazioni malinconiche perché l’amore è politico, in quanto la vita è politica. Lo sanno bene le donne raccontate da Troisi, indipendenti e lottatrici, come contrappesi di una fragilità maschile oscena, nevrotica, sarcastica e insopprimibile. Creature verso le quali tendere disperatamente, e Troisi lo sapeva bene: era perfettamente a conoscenza del fatto che l’impossibilità di amare ci condanna, di fatto, all’amore, secondo la tesi proposta a chiare lettere dallo stesso Martone, che parte dagli esordi con Lello Arena ed Enzo De Caro nel trio comico di enorme successo televisivo e popolare La Smorfia e arrivò fino alla consacrazione-suggello pre-mortem de Il postino, film che Troisi, urgentemente bisognoso di un trapianto, si rifiutò di girare col cuore di un altro. 

Davvero tanti spunti di riflessione, dunque, e densissimi da passare in rassegna, a riprova di un film insieme nostalgico e magmatico, affettuoso e lucido, intellettualissimo eppure straordinariamente, incredibilmente popolare. Tutto basato su quel “fragore dell’identificazione” cui fa riferimento lo scrittore premio Strega e prolifico sceneggiatore del nostro cinema Francesco Piccolo, che all’epoca dell’uscita dell’esordio di Troisi, Ricomincio da tre, nel 1981 lo vide al cinema per tre volte di fila nei primi tre giorni d’uscita lo vide tutte e tre le volte in piedi, senza trovare posto. 

Di Troisi Martone, che rimane pur sempre il regista più recente de Il giovane favoloso e Noi credevamo oltre che uno dei cineasti più vitali e ribollenti della scena anche teatrale napoletana di Teatri Uniti, compagnia fondata nel 1987, è molto attento anche alla dimensione d’icona nazionale di Troisi, in chiave nuovamente politica: fa emergere che Troisi afferiva, già ai tempi della Smorfia, a quella vocazione pensiero che non voleva che paternalismo e populismo fossero branditi a brutto muso contro la cultura popolare, svilendola. 

Allo stesso modo però non riusciva a essere preso e a prendersi sul serio come intellettuale, avrebbe voluto essere come Pier Paolo Pasolini (pur invitando a diffidare dei suoi pallidi emuli o per meglio dire di di chi mostrava di sapere sempre tutto di tutto), ma capì ben presto, rassegnandosi, che non era nelle sue corde smuovere opinioni e coscienze con editoriali storici e arroventati sul Corriere della Sera. La sua via era quella dei tic del toccarsi nervosamente il sopracciglio o dietro il collo (quante volte gliel’abbiamo visto fare, nei film?), di essere prima di tutto e soprattutto “il comico dei sentimenti”, come lo definì la rivista di cinema romana Sentieri Selvaggi nell’unico volume dedicato al cinema di Troisi mentre lui era ancora in vita. 

Le osservazioni tecnicamente più affilate sono quelle di Sorrentino, col quale Martone rivede insieme in salotto Scusate il ritardo, l’opera seconda di Troisi, che sottolinea come il cinema del moderno Pulcinella di San Giorgio a Cremano avesse una dolcezza femminile rarissima per i nostri registi, una commistione di comico e drammatico che lui stesso ha provato a inseguire, rubare o imitare (Ma con risultati ben più modesti, anche perché Troisi è stato un grande attore tout court, dice il Paolone nazionale) e delle gag a lento rilascio, protrate all’infinito prima di esplodere, che lo rendevano a suo dire un comico totalmente atipico. 

Se la definizione più concettosa di Troisi la dà, infine, Giuseppe Bertolucci, che scrisse Non ci resta che piangere, interpretato e diretto dall’attore campano in coppia con Roberto Benigni (i due firmarono il copione proprio con Bertolucci), e che parla di “ombra metafisica” della sua comicità, sono alla fine della fiera i palermitani Ficarra e Picone a mettere definitivamente e mai così eloquentemente le cose in chiaro, identificando in Troisi l’ultimo approdo di un fil rouge selettivo, dorato ed esclusivo che a loro dire investe soltanto Totò e Peppino, Chaplin, Stanlio e Ollio. A scanso di equivoci: nella grande famiglia dei clown tristi e malinconici, cui Troisi appartiene da sempre e ai sommi livelli, praticamente i più grandi. 

Foto: Indiana Production, Vision Distribution, Medusa Film

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