Dopo È stata la mano di Dio, il suo film deliberatamente più personale e intimo, Paolo Sorrentino è rimasto a Napoli per un inno alle magnificenze e alle contraddizioni della sua città natale, prolungando il racconto, stavolta più che mai onirico e immaginifico, delle proprie origini: Parthenope, in Concorso a Cannes 77, è infatti un film – il primo del regista premio Oscar con una protagonista femminile – infatuato di vitalismo e languori, in cui il culto del bella forma è consolazione e insieme approdo ultimo di ogni slancio stilistico e rincorsa allo stupore.
Sorrentino, in Parthenope più che nel resto della sua filmografia, dà l’idea di muovere la sua ispirazione a partire da una trasognata incapacità di cogliere la totalità della sostanza. In questo caso tale assunto è dichiarato, acquisito, cristallino come le acque di Napoli, che la macchina da presa del regista spesso si sofferma ad ammirare alla stregua dei suoi corpi sempre simili a statue, in un’estasi contemplativa che non può avere fine. Non c’è più, come ne La grande bellezza, il tentativo fallito di Jep Gambardella di scrivere un romanzo sul niente alla maniera di Flaubert, ma l’accettazione della generosità indomita dell’esistenza e della crudeltà irrinunciabile della giovinezza, alla quale è inutile provare mettere un argine (“Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto”, recita la frase in esergo di Céline, scrittore che apriva anche il film premio Oscar con Toni Servillo).
Parthenope, abitato da un gusto del vacuo e dell’effimero che Sorrentino usa come una lente attraverso cui osservare gli esseri umani e le loro miserie, commiserandole ma anche innamorandosene, è un film dalla grazia leggiadra e lieve, nonostante ci sia dentro tutto l’armamentario estetico e aforistico cui il cineasta ci ha da sempre abituati. Parthenope (Celeste Dalla Porta) è una ragazza di una bellezza abbacinante e ammaliante, che cattura e lascia senza fiato, ed è intorno a lei che Sorrentino costruisce la sua consueta cornucopia di immagini ovattate, di personaggi e situazioni che sono un tripudio dell’emozione che fugge, all’incanto che un attimo prima riempie gli occhi e il secondo dopo atterrisce e immalinconisce, smussando anche il dramma con un lento precipitare nel golfo partenopeo: esaltazione e dissoluzione convivono, con quel senso di assoluto che solo l’età più dolce della vita, nella sua accezione più mitica, può restituire.
La Parthenope di Sorrentino è un magnete: tutti la guardano, la desiderano, la bramano, dentro un film mosso dalle coordinate della seduzione e del dolore, dalla consapevolezza secondo cui “è impossibile essere felici nel posto più bello del mondo”. Nel viaggio a tappe della protagonista, che parte dalla sua nascita negli anni ’50 e arriva fino allo scudetto del Napoli, passando per l’epidemia di colera e le contestazioni studentesche, la camorra e San Gennaro, sono gli uomini di contorno, molto più delle dive sui generis di Luisa Ranieri e Isabella Ferreri, a scandirne la vita: il fratello Armando, il devoto Sandrino (un Dario Aita in costante ascolto della ragazza di cui è innamorato da sempre), lo scrittore alcolista e sfatto John Cheever, interpretato da uno struggente Gary Oldman, ma soprattutto il professor Marotta incarnato da Silvio Orlando, che dispensa gli aforismi più taglienti e saggi e anche quelli più buffi ed esilaranti, arrivando a citare addirittura Billy Wilder.
Se Parthenope, che studia da antropologa, quasi a volersi farsi carico di quell’ensemble miracolistico e sempre al confine tra sacro e profano che è Napoli, ha sempre la risposta pronta, non sa niente ma le piace tutto (a suo dire), Sorrentino dal canto suo continua a coccolare e confondere quello che lui stesso battezza come “il confine tra l’irrilevante e il decisivo”, sempre alla ricerca del prossimo colpo a effetto acquattato dietro l’inquadratura e la battuta a effetto successive. In attesa di sbocciare come quel futuro che, dice Parthenope a Sandrino, è “più grande di me e di te” e nel quale, parafrasando il brano di Cocciante che incornicia un’emozionante scena di ballo a tre dal sapore bertolucciano, non è mai affatto detto che fosse già tutto previsto.
Foto: The Apartment, Fremantle, Saint Laurent productions, Numero 10, Pathé Pictures
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