Metà agosto. Al cinema, prima di un film molto importante, vedo il teaser trailer di Mine, e mi rendo conto che lo sto guardando con un pubblico in sala per la prima volta. Un amico al mio fianco è stranito dal vederlo con il co-regista seduto lì. Finisce il teaser e si alza un mormorio, uno dietro di me dice “Alla fine di questo film mi sa che ti serve un fegato nuovo!”, alludendo immagino alla tensione. Le reazioni di perfetti sconosciuti al teaser e alla locandina mi rendono matematicamente chiara una cosa: il film non mi appartiene più, sta per scomporsi nelle migliaia di esperienze che ne faranno gli spettatori. Questo l’avevo già capito dopo le prime interviste, che dimostrano come i giornalisti vedano cose che tu hai effettivamente messo nel film, ma ricavano anche chiavi di lettura che esistono al di là delle tue intenzioni consce. Ogni volta che invece sono io a rivederlo, noto dettagli che vorrei ancora modificare, ma soprattutto rivivo i ricordi di tutti gli eventi che hanno portato a generare ogni singola inquadratura sopravvissuta. Da quando l’abbiamo pensata in un bar di Milano, a quando l’abbiamo girata a Fuerte Ventura, passando attraverso montaggi notturni, composizioni musicali invernali e mix finale a Roma. L’unico Mine che rimarrà per sempre per me, è il Mine dei ricordi.
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