Un film è un punto ma due film permettono già di tracciare una linea: che cinema fanno i D’Innocenzo (fin qui)?
Cinema delle periferie, senz’altro.
Cinema di primissimi piani e campi altrettanto lunghi. Quindi, si direbbe, cinema senza mezzi sguardi: molto vicino o molto lontano.
Ma anche cinema breve, di nuovo sotto i cento minuti. Cinema ellittico, che non si concede del tutto.
E poi cinema realista nel mostrare i suoi luoghi, ma impressionista nel definire i personaggi, cioè cinema di spaesamento percettivo.
Favolacce inizia con il ritrovamento del diario di una bambina da parte del narratore (Max Tortora), un diario interrotto senza spiegazioni. Questo diario contiene delle storie, queste storie – che hanno origine nella vita – ottengono poi una loro autonomia, una messa in scena, e un finale “morale” che non si sa se vero oppure no: diventano “favolacce”.
A noi, che assistiamo/ascoltiamo/immaginiamo, il narratore dà la responsabilità di una interpretazione.
Siamo alla periferia di Roma, in un quartiere residenziale di villini su due piani che pare la versione da incubo dei quartieri ricchi e sonnolenti della suburbia americana. Un viale, gli alberi, le famiglie in giardino, i bambini che si conoscono tutti, manca giusto un ragazzo in bicicletta che consegna i giornali e qualcuno che falcia il prato, ma non è un caso.
Due cose però allungano un’ombra sinistra sulla vita di queste famiglie, le de-americanizzano. La prima: questa civiltà non è semi-urbana, non prosegue dove finisce la città, non è cioè coerente a un progetto sociale. Confina con aree disabitate, con piscine vuote, con parchi incolti, distributori di benzina o multisale che sembrano fabbriche. È un avamposto sul nulla. Come in un romanzo di Philip K. Dick, facciate e isolati paiono nascondere stati di non esistenza: quello che vediamo arriva fin dove arriva la fantasia del narratore e, più in là, quella dello spettatore.
La seconda: le persone sono sconnesse tra loro, non hanno identità da condividere. Non le vediamo lavorare, o non hanno un lavoro. Non leggono, non guardano film. Parlano lo stretto indispensabile – ma in certi momenti i personaggi grugniscono, più che parlare. Al massimo, mangiano. Non avendo scadenze e priorità, essendo insoddisfatti di tutto e provando principalmente un sentimento di disprezzo per le cose e le persone, finiscono per essere estranei perfino al tempo. Nonostante la voce del narratore, leggendo il diario, parli di un’estate che inizia e finisce, di una scuola che termina e ricomincia, l’esperienza di questo mondo accade per frammenti e schegge (la piscina, il morbillo…). È una scelta coraggiosa, perché gioca costantemente con la frustrazione dello spettatore per indurlo a uno sforzo di collegamento, alla costruzione di un’idea.
È anche la ragione per cui raccontare il film, produrre una sinossi, è quasi impossibile: Favolacce è un mondo, che comprende genitori quarantenni e figli in età da scuola media. Accade in un luogo privo di coordinate, confinante col nulla. Non ha premesse ma produce delle conseguenza.
E cosa accade a un mondo sconnesso, ai margini della non-esistenza, raccontato da un narratore pessimista, abitato da adulti che sfogano la propria frustrazione sui figli?
La meccanica della risposta non è molto diversa – nel metodo e nella sostanza – da quanto avevamo visto in La terra dell’abbastanza. In questa idea di periferia famelica che divora le nuove generazioni.
C’è, tra tutti, un solo personaggio risolto, Amelio, figura pasoliniana che non a caso vive con suo figlio in uno spazio geografico diverso, in aperta campagna, e non ha ambizioni di classe o proprietà, non ragiona in termini di confini: tutta la tenerezza del film è sua. Non è molto migliore degli altri genitori, ed è altrettanto incapace di costruire una comunicazione intergenerazionale, ma non è (ancora) compromesso dall’insoddisfazione.
L’ipotesi di sopravvivenza che rappresenta resta attaccata a Favolacce come una miccia spenta.