Sotto la sedia su cui sei seduto ora, tu, c’è una bomba. Io lo so, ma tu non ne hai idea. E lo so da prima che tu ti ci sedessi. E ti sto guardando da allora, da quando ti sei seduto. C’è una bomba. E sta per esplodere. Stai per fare il botto grosso. E quando succederà, per te sarà una sorpresa. Per me no. E mi avrai regalato quindici minuti di suspense, rispetto a quei quindici secondi di sorpresa che tu, amico mio, stai per vivere. Adesso sai cos’è la suspense. Esatto, è quando te la fai sotto. Ma anche quando io so qualcosa in più rispetto a te che sei il protagonista del mio film. E non te l’ho spiegato io, ma il più bravo di tutti a crearla, a immaginarla e poi metterla in pratica. Il più bravo di tutti nella storia, a fare quel tipo di cinema lì. Un regista inglese (Hitchcock, Ndr) che si trasferì a Hollywood e diventò uno dei dieci più grandi della storia. Ma non è di lui che stiamo parlando ora. Parliamo di un ragazzino cresciuto in North Carolina che fece i miracoli all’università e poi entrò nella lega di basket più importante del mondo, per diventare il più grande di tutti. Un ragazzino che non fu scelto nemmeno per primo, non era considerato il miglior prospetto, uscito dal college. E nemmeno il secondo. Fu scelto come terzo, da una squadra di scarsi. Un ragazzino di quasi due metri che ha fatto la storia, di quelli per cui c’è un prima e un dopo, di quelli che dovrebbero nascere e crescere in Galilea, e invece lui si ritrovò nella città del vento. Un ragazzo che, insomma, lo conosce anche mia madre, e come potrebbe essere il contrario? Ma no, non stiamo parlando nemmeno di lui. Parliamo di una squadra. Una squadra di basket che nasceva dalle ceneri di una squadra di scarsi, di tizi che ci capivano il giusto di palla e canestro, ma molto di più di feste, droga e ci siamo capiti. Di una squadra costruita attorno al suo Profeta, che non si limitava a evangelizzare con l’ausilio degli apostoli, ma che si ritrovò a convivere con una squadra di angeli. Di semidei, oscurati però dal più grande di tutti. Una squadra che seppe scrivere la storia. E poi riscriverla. E scriverla ancora e per sempre, in modo definitivo. Una squadra, anche qui, che diventò punto di riferimento e comparazione per tutti prima e dopo. Una squadra perfetta, costruita in maniera eccellente dagli dèi e distrutta dall’uomo. Ma no, non stiamo parlando nemmeno di questa squadra. E allora di cosa caxxo parliamo? Dell’eccellenza. Dell’essenza. Del racconto. Del cinema. Che non è il “cosa”, ma il “come”. Almeno, così diceva quel regista inglese lì. Di The Last Dance avete letto tutto. Vi hanno anche fatto credere che fosse la cosa più vista in assoluto di Netflix in Italia. Non era vero, quando ve l’hanno detto, ma non importa. Come tutto quello che riguarda questa serie. The Last Dance è una serie documentario di dieci puntate che racconta la stagione NBA 1997/98 dei Chicago Bulls. L’ultima con lo stesso nucleo vincente di sempre. L’ultimo ballo, insomma. Punto. Quel campionato lo hanno vinto i Bulls e lo sanno tutti. E chi non lo sapeva, lo ha cercato su Wikipedia. E ha aspettato il lunedì, almeno gli ultimi due, rodendosi le unghie e divorando gli episodi chiedendosi : “Ma ce l’avranno fatta davvero? O è cambiato il finale?”. L’epicità di una storia irripetibile e la costruzione perfetta della suspense, hanno costretto milioni di spettatori ad aspettare quell’ultimo tiro, IL tiro di MJ, chiedendosi se fosse entrato o no. La suspense, costruita al millimetro. Ed è per questo che per me, questa storia, tutto è fuorché un documentario. È fiction e intrattenimento puro. È costruita come se lo fosse. Con il cattivo per eccellenza, uno che per quanto grande possa essere stato, non potrà mai difendersi, perché tanto è morto (Jerry Krause, Ndr). Ma MJ lo odiava e se ne può parlar male. Ci sono tutti i cattivi di puntata (ma meno rispetto al supercattivo che nel frattempo è considerato tra i più grandi General Manager di sempre) che, di volta in volta, vengono sconfitti dalla squadra e dal suo leader. Ci sono tutti gli impedimenti che sembrano insuperabili, ma proprio quelli classici: i mal di testa forse inesistenti, i mal di pancia da avvelenamento degli avversari, gli infortuni inaspettati ma con recuperi da record, i compagni di squadra che sembrano scarsi ma che in realtà si prendono la ribalta quando serve e soprattutto quando Sua Maestà decide che è il loro momento; ci sono i cliffangher a fine puntata che Trono di spade levati, ci sono i potenziamenti in corso d’opera, con i nuovi compagni di squadra che arrivano e i vecchi che scompaiono, c’è la morte del padre del protagonista che gli fa fare scelte scellerate, ci sono i cattivi che però sono buoni e salgono sul pullman a fare i complimenti, e tanto di cappello, e chi se ne frega che abbiano avuto un figlio da una tredicenne qualche anno prima; e ci sono anche le cadute di volta in volta del protagonista supremo che però sa sempre come rialzarsi. Insomma, a un certo punto sei convinto di star guardando una puntata a caso dei Power Rangers, ma con Michael Jordan al posto dei MegaZord. Ed è tutto perfetto. Perché questi qui, disastrati, odiati dai loro capi, senza forze, bistrattati, con tutti che li credono finiti, con il leader che ha fatto un altro sport nel frattempo e non è più quello di prima, con le nuove leve avversarie sempre più forti, con Giove, Saturno e Venere in opposizione e Gargamella che dice “anche se le vincete tutte, ve ne andate tutti affanc…”, loro, con l’ultimo epico tiro, vincono. Che meraviglia. Costruito benissimo. Il basket? Ma sticazzi, qui abbiamo una storia ragazzi, qui facciamo la Storia! Il genio di Phil Jackson che inventa un sistema di gioco che sarà vincente anche in seguito e altrove? Ehi, gli abbiam dato tre minuti! I compagni di squadra? Ma fanno folklore, non vedi che Pippen ha i denti finti e parla come lo chef di South Park? E Rodman? Ma non è carinissimo, puccioso e rock ‘n’ roll? Sì. Per questo è splendida. Perché no, non è un documentario. È una serie che sapientemente usa le digressioni, i salti temporali e i colpi a effetto, che This is Us sembra Paw Patrol. Con un protagonista che umanamente odi profondamente ma che non puoi non riconoscere come lo sportivo più grande di tutti. Con una narrazione di parte e costruita per andare esattamente in quella direzione, per dirci che Michael gioca d’azzardo anche coi sottoposti, e che non è un problema, perché può dominarlo, e che le sneakers le comprano anche i repubblicani, ma ehi, c’è Obama che parla, e allora Michael diventa emblema del Black Power. È un casino, The Last Dance. Un perfetto casino paraculo. E per questo, è un casino perfetto. Sull’eccellenza nello sport e magari non nella vita, sull’essenza della vittoria e del cercarla in ogni modo, su un racconto che ti tiene incollato allo schermo fino alla fine, implorando di averne dell’altro, e sul cinema. Su come si costruisce una storia per il cinema. Ecco, di che cosa parliamo. “Prendo in giro la gente, perché alla gente piace essere presa in giro”. Eh, Sir Alfred Hitchcock, l’hanno vinto davvero, poi, quel titolo. E hanno dato fuoco a tutto in un attimo, in un barile. Ma quanto ci siamo divertiti, con quest’ultimo ballo?
Brano ascoltato in loop mentre scrivevo: “Present Tense” – Pearl Jam
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