Giunto alla sua 49° edizione, il Giffoni Film Festival è da sempre il luogo ideale in cui i ragazzi incontrano e in qualche modo si “scontrano” anche con tematiche più grandi di loro, che possono essere meglio comprese proprio attraverso il mezzo filmico. Tra i tanti titoli proposti quest’anno spicca ad esempio My name is Sara, pellicola presentata a Giffoni in première mondiale, la quale affronta il complesso tema dell’Olocausto provando a spiegarlo ai più giovani attraverso una figura vicina a loro.
My name is Sara racconta infatti l’incredibile storia vera di Sara Góralnik, ebrea polacca che aveva appena tredici anni quando nel 1942 vide la sua famiglia sterminata davanti ai suoi occhi per mano dei nazisti. Unica sopravvissuta alla strage, Sara fuggì in Ucraina dove assunse l’identità della sua migliore amica cristiana riuscendo così a trovare ospitalità e lavoro in una fattoria. Oltre a dover tenere nascosta a tutti i costi la sua vera identità, la ragazza fu costretta confrontarsi con una realtà in cui le relazioni umane erano state inevitabilmente deteriorate dalla guerra, dal sospetto del nemico e dalla paura verso il prossimo.
Venendo da una filmografia composta prevalentemente da documentari, il regista americano Steven Oritt era alla disperata ricerca di una storia interessante da raccontare per il suo primo lungometraggio di narrazione. Quando si è imbattuto nella testimonianza di Sara, allora ormai anziana e malata (è scomparsa nel 2018), la storia di questa tredicenne sopravvissuta agli orrori dell’Olocausto gli è apparsa già come un film, sequenza dopo sequenza. «Ci sono molti film sulla Shoah – ha esordito il regista durante l’incontro con la stampa a Giffoni 2019 – Perciò era fondamentale trovare una chiave per raccontare questa vicenda così importante senza ripetersi. Ho deciso così di soffermarmi su un aspetto che molto spesso viene trascurato, ovvero gli effetti collaterali della Shoah che hanno investito l’intera popolazione, non soltanto gli ebrei, minando la possibilità di sani rapporti umani per colpa della paura del diverso». Il film non è stato pensato appositamente per un pubblico di ragazzi, ma Oritt si è detto entusiasta di poter avere la première mondiale proprio a Giffoni, festival in cui i giurati hanno la stessa età della giovane protagonista e potranno così immedesimarsi in lei, instaurando un legame profondo con la vicenda. Un meccanismo oggi sempre più necessario, soprattutto dato il nostro contesto storico in cui mancanza di empatia e scetticismo fanno da padrone.
E del resto la storia di Sara lascia davvero a bocca aperta per la tenacia e la maturità dimostrate da questa ragazza che dopo una terribile tragedia è stata costretta a crescere improvvisamente e a prendere decisioni impensabili per un essere umano. Una figura decisamente difficile da portare sul grande schermo. E infatti, come ha confermato Oritt, la più grande sfida è stata proprio trovare l’interprete adatta. «Quando ci siamo incontrati ho chiesto a Sara: come fa una ragazzina di tredici anni a sopravvivere in quelle condizioni? Lei mi ha risposto: ascoltando senza mai parlare. Perciò ho capito di dover cercare un’attrice che potesse calarsi così tanto nel trauma subito da Sara da andare avanti quasi col pilota automatico, pensando solo alla sopravvivenza». Dopo numerosi casting ai quali si sono presentate oltre 600 ragazze polacche, il regista è rimasto letteralmente folgorato da un self-tape della tredicenne Zuzanna Surowy. «Abbiamo rischiato tantissimo scegliendo lei – ha spiegato – perché Zuzanna era non solo al suo primo film, ma addirittura al suo primo casting in assoluto. Lei è un’atleta e non aveva mai recitato prima. Ma ha fatto la sua ultima audizione insieme ad attrici polacche molto famose e si è difesa benissimo. Abbiamo capito subito che era la ragazza che stavamo cercando».
Anche la preparazione di Zuzanna per calarsi in un ruolo così complicato non è stata facile: «Innanzitutto ho dovuto migliorare il mio inglese! – ha ricordato la giovanissima attrice – Poi ho fatto delle lezioni di recitazione con una famosa attrice polacca, in cui abbiamo studiato a fondo la figura di Sara. L’ho trovata da subito grandiosa, era solo una bambina e ha dovuto affrontare così tanto. La ammiro molto». Ha aggiunto poi il regista: «Anche se non ci sono campi di concentramento nel film, ho voluto che Zuzanna visitasse Auschwitz per comprendere meglio il dramma dell’Olocausto. Ma fin da subito mi è stato chiaro che fosse molto più matura di quello che la sua età potrebbe far pensare e che riusciva a immedesimarsi nella storia nonostante la complessità delle tematiche trattate».
Dopo la première a Giffoni Film Festival 2019, My name is Sara è attualmente alla ricerca di un distributore italiano per l’arrivo in sala. Purtroppo, ha spiegato il regista, l’unica persona che non potrà vederlo sarà proprio la vera Sara Góralnik, recentemente scomparsa. «Non è un male, in realtà – ha detto Steven Oritt – Sara era anziana e malata, ma soprattutto soffriva di disturbo da stress post-traumatico. Suo figlio non voleva che sapesse del film, perché per lei sarebbe stato troppo doloroso rivedere la sua storia sul grande schermo. Ha vissuto tutta la vita in America, non è mai voluta tornare in quei luoghi, e ascoltando la sua testimonianza possiamo anche capire perché. Ulteriore motivo per cui film come My name is Sara sono così importanti oggi, in un periodo in cui ci sono ancora tante persone che negano il trauma dell’Olocausto».
Foto: Courtesy of James Lucy Productions
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