6 aprile, 1917. Blake (Dean-Charles Chapman) e Schofield (George MacKay), giovani caporali britannici, ricevono un ordine di missione suicida: dovranno attraversare le linee nemiche e consegnare un messaggio decisivo che potrebbe salvare la vita di 1600 uomini sul punto di attaccare l’esercito tedesco. Per Blake l’ordine da trasmettere assume un carattere personale perché suo fratello fa parte di quei 1600 soldati che devono lanciare l’offensiva. Il loro sentiero della gloria si avventura su un terreno accidentato, no man’s land, trincee vuote, fattorie disabitate, città sventrate, per impedire una battaglia e percorrere più in fretta il tempo che li separa dal 1918.
In un momento storico in cui si dibatte molto della resistenza della fruizione in sala, 1917, il war movie di Sam Mendes candidato a 10 premi Oscar, rappresenta una sorta di urlo di sopravvivenza del cinema, analogamente a quanto scrivevamo, per restare all’interno dello stesso genere, su Dunkirk. Si tratta infatti di un film che punta tutto, e a 360°, sull’esperienza di visione immersiva, veicolata in questo caso da un unico piano sequenza (con un intervallo al nero tra i due macro-atti), ricorrendo a sofisticate tecniche per cucire insieme le riprese.
Se quello di Nolan sulla Seconda Guerra Mondiale era un film sulla radicalità della scansione del tempo, la Grande Guerra nelle mani del regista di Revolutionary Road e degli ultimi due Bond diventa invece un flusso avvolgente in cui l’attraversamento dello scenario bellico si fa nodo cruciale di dinamismo: una sfida allo prospettiva dello spettatore giocata al rialzo, che si articola tra bunker, cadaveri di cavalli in cancrena, topi giganti, reticolati e liquami.
Nonostante ciò, tuttavia, Mendes non sceglie di sottolineare eccessivamente il marciume estetico e morale del combattimento. Predilige semmai il titanismo empatico di uno sguardo che attraverso la perfezione della messa in scena riesca a congelare il tempo e lo spazio in un eterno e impassibile presente, in cui la minaccia della dipartita è ricorrente e incolmabile rispetto alla piccolezza dell’uomo schiacciato da un fato tragico.
Non è un caso, in termini di puntualità drammaturgica, che 1917 si muova in una specie di girone infernale concentrico, in cui le apparizioni degli attori più noti, poco più che dei camei (Colin Firth, Mark Strong e Benedict Cumberbatch) puntellano una struttura narrativa tripartita arricchendo rispettivamente il prologo, il blocco centrale e l’epilogo come fossero emanazioni dantesche, ineluttabili e stentoree nelle loro maschere di assoluta e non scalfibile durezza.
Con queste premesse 1917 potrebbe sembrare solo un esempio di manierismo hollywoodiano d’alta scuola, ma è interessante notare come Mendes, a partire dalle memorie di un avo (suo nonno Alfred) come già fatto da Peter Jackson col suo documentario sulla prima guerra mondiale They Shall Not Grow Old, sappia intercettare anche, soprattutto nei frangenti in cui il climax spettacolare trova il suo massimo sfogo, una forma di verità della rappresentazione che tracima nell’emozione vibrante e a perdita d’occhio. Un elemento capace di trascendere il dato della mera ricostruzione, anche senza dover scomodare a tutti i costi capolavori irraggiungibili sulla Prima guerra mondiale, come Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick, All’ovest niente di nuovo di Lewis Milestone e via discorrendo.
Siamo in un anno risolutivo per l’estinguersi del conflitto, in 1917, ma a Mendes interessa soprattutto il palpitare e lo scapicollarsi a vuoto di due ragazzi qualunque, l’uno smilzo e indurito e l’altro più pacioccone e bonario: i loro movimenti somigliano a un costante lavoro d’equilibrismo su una sbarra di ferro sospesa su un fiume freddo e gelido, con al di sotto un imbuto ideale in cui ci si può trovare precipitati in un vortice senza ritorno di caos e morte da un momento all’altro.
Non è cinema bellico di eroi pluridecorati, dunque, 1917, ma di gabbie e prigioni a cielo aperto, di cui è impossibile intravedere i contorni. E non stupisce, a tal proposito, che la scena in assoluto più stupefacente, oltre alla trasversale corsa a perdifiato di Schofield nel bel mezzo di una battaglia in corso, sia la sequenza notturna all’interno delle rovine del villaggio francese di Ecoust: un momento di cinema altissimo e da tatuare nella memoria, in cui il baluginare intermittente e inquietante delle fiamme e delle ombre conferma la statura sensazionale del contributo artistico del geniale direttore della fotografia Roger Deakins, accreditabile a tutti gli effetti (e non è certo la prima volta che accade) come co-autore del film.
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