22 Luglio 2011: l’estremista di destra Anders Breivik (Anders Danielsen Lie) realizza una strage immane in un campus a Utøya, piccola isola vicina a Oslo, mandando a morte oltre settanta persone. Per il giovane Viljar (Jonas Strand Gravli), uno dei ragazzi sopravvissuti, sarà tutt’altro che agevole tornare alla normalità, mentre l’avvocato Geir Lippestad (Jon Øigarden), difensore di Breivik, dovrà fare i conti con un caso terribile, tra i più raggelanti episodi di terrorismo contemporaneo.
Paul Greengrass in 22 July, film targato Netflix passato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2018, affronta di petto un evento che ha sconvolto l’opinione pubblica europea e la Norvegia intera, costretta di colpo a fare i conti col proprio personale Olocausto. Il film è assolutamente zelante e preciso nella ricostruzione, evitando di sbandare tanto col pathos fuori misura quanto con un’adesione eccessivamente emotiva ai fatti.
C’era d’aspettarselo dopotutto da un regista solido e granitico come Greengrass, cineasta britannico che nel cinema d’azione ha più volte impresso a ferro e fuoco il suo marchio. Una denominazione d’origine controllata, quella offerta dal suo approccio fragoroso e d’assalto, che torna puntuale anche qui in una mezz’ora iniziale assemblata con maestria e bruciante sensibilità visiva. Il modo in cui il regista di United 93 riesce a mappare e coreografare luoghi e azioni in maniera convulsa d’altronde è davvero unico.
Poi però, in uno dei suoi film forse più schematici ma anche più controllati e tiepidi, subentra la giusta distanza di cui dicevano, l’epica silenziosa della ricostruzione, che scorre sullo schermo in maniera distaccata ma atterrita. In tal senso il film si configura più come un tipico prodotto Netflix – enunciativo e e intellegibile, poco sbilanciato sul piano formale, come la piattaforma ne produce in quantità industriale – che come un film di Paul Greengrass in piena regola.
Il 63enne cineasta del Surrey racconta il massacro di un folle dell’ultradestra senza pose ammaestranti e giudicanti, che è anche il merito più incredibile di un film confezionato con equidistanza, equilibrio, senso della misura. Il ruolo dell’avvocato e il lavoro sul personaggio del Primo Ministro vanno in questa direzione (il secondo però è più appannato e frettoloso del primo come sviluppo), evitano le prese di posizione aprioristiche anche al cospetto di quanto più bieco e sanguinario l’azione umana possa concepire. Fanno dialogare, sempre e comunque, l’aberrazione col sistema democratico norvegese, con le sue applicazioni.
22 July, in tal senso, è una lezione tutta contemporanea di cinema civile magari schematico ma dialettico e pulsante, dedito e attento. Umilmente civile, nel senso più alto del termine, perché sempre pronto a interrogarsi sulle conseguenze della giustizia, facendo del vaglio degli elementi in campo, del dubbio, della problematicità i suoi fari. Senza la testa del carnefice da imbandire su un piatto d’argento, per soddisfare il pubblico ludibrio, ottuso e di pancia.
© RIPRODUZIONE RISERVATA