Non si sapeva quasi nulla del nuovo film di George Miller, di ritorno sulla Croisette dopo il passaggio trionfale con Mad Max: Fury Road nel 2015. 3000 Years of Longing si è rivelato una specie di fiaba barocca in stile Tarsem che racconta l’incontro tra Alithea, una studiosa inglese di Narratologia (Tilda Swinton), e un djinn (Idris Elba), creatura magica citata nel Corano, che qui rappresenta semplicemente il proverbiale genio della lampada. Suscitato spolverando con uno spazzolino elettrico un’ampolla comprata in un bazar di Istanbul, il genio si trova a dover convincere la donna – ben consapevole dei meccanismi morali delle fiabe – che i tre desideri che le spettano non la metteranno nei guai. Inizia così una lunga digressione nel passato del djinn, alla scoperta dei suoi precedenti padroni, dei desideri esauditi e di quelli rimasti inespressi, una digressione che parte da Re Salomone, passa per l’Impero Ottomano e arriva fin quasi a giorni nostri, con una storia di emancipazione femminile.
Tutto chiuso tra le quattro pareti di una stanza d’albergo nella sua dimensione presente, e interamente catturato da universi digitali in quella fantasy dei flashback, 3000 Years of Longing spende la sua ambizione in una direzione bizzarramente fuori moda, quella dell’esotismo mediorientale farlocco, dei deserti in computer grafica, dei palazzi imperiali colmi di meraviglie e sortilegi, che ha smesso da tempo di essere fonte di buoni esiti in sala e che ha fatto naufragare perfino Tom Cruise e la “sua” versione della Mummia. Il film va cercato a metà strada fra Il Re Scorpione e The Fall del citato Tarsem, in un’atmosfera da Le mille e una notte, dove le storie si moltiplicano in un gioco di specchi infinito e l’amore è – appunto – una questione di desideri irrisolti.
In conferenza stampa Miller ha ammesso che l’idea sarebbe stata di girare in location gran parte del film e che è stata la pandemia a obbligare la produzione a scelte differenti e quindi all’uso massiccio del digitale – non è una deviazione da poco. Sia come sia 3000 Years of Longing conserva certamente del cinema di Miller l’ambizione a un cinema poderoso nella messa in scena e radicale nella manipolazione delle strutture narrative, sia pure su coordinate molto diverse da Mad Max: Fury Road. Ne conserva anche, almeno qua e là, lo sguardo disallineato rispetto al mainstream, il gusto per il dettaglio grottesco o straniante. Ma al di là di questo è soltanto un oggetto pesante e sgraziato, fuori dal tempo ma non in senso buono: è in ritardo su tutto, anche tenendo conto delle sue intenzioni.
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