La storia di Dirty Dancing è piuttosto particolare e nasce dallo script parzialmente autobiografico di una sceneggiatrice inesperta (Eleanor Bergstein), che finisce tra le mani di una produttrice alle prime armi (Linda Gottlieb), che riesce a venderlo a una casa di produzione che non aveva mai fatto un film (la Vestron Pictures, fino a quel momento specializzata in distribuzione di film nel nascente mercato dell’home video in VHS), che affida la pellicola ad un regista che non ha mai diretto un film (Emile Ardolino), che sceglie un’attrice (Jennifer Grey) che non sa ballare e un attore (Patrick Swayze) che sa ballare benissimo ma che non vuole farlo e con cui, come se le cose non fossero già abbastanza complicate, si odiano reciprocamente. Come ciliegina sulla torta, un budget minuscolo (quattro milioni e mezzo di dollari) e solo quaranta giorni di riprese. Nonostante tutto questo, la pellicola diventa un successo che resta in testa ai box office per diciannove settimane consecutive, fa vendere milioni di dischi della colonna sonora e, ancora oggi, in tempi in cui nessuno guarda più la televisione tradizionale, riesce sempre a calamitare qualche milione di spettatori a ogni passaggio sugli schermi domestici.
Ora, sgomberiamo il campo da alcuni fraintendimenti: tutti i limiti del film sono evidenti. Il soggetto è facilone e pretenzioso nella sua volontà di mettere in scena una “lotta di classe” a tempo di musica, la sceneggiatura è ben lontana da essere brillante e la messa in scena misera, al punto che è difficile riuscire persino a capire in che anni è ambientato il film. Persino la stagione in cui è stato girato è sbagliata (in settembre, con l’autunno alle porte, nonostante la storia ci dica che è piena estate). Eppure, Dirty Dancing funziona. Perché? Me lo sono chiesto per anni, specie in virtù del fatto che pur essendo pienamente consapevole di tutti i limiti della pellicola, sono uno di quelli che, ogni tanto, Dirty Dancing se lo deve rivedere. E con gusto.
E, all’ennesimo rewatch, credo di aver finalmente capito la ragione di questa mia perversione, così comune a molti. Il segreto, credo, sta tutto in una scena chiave del film: Baby ha accettato di aiutare Johnny e di sostituire la sua compagna (ma solo di ballo) Penny per un’esibizione, ma la ragazza non sa ballare. Tocca quindi al futuro “duro del Roadhouse” farsi carico della sua educazione ritmica (e sentimentale, come scopriremo rapidamente). A quel punto parte un classico (per il film dell’epoca) montaggio musicale. Un momento “alla Rocky” in cui la Grey viene addestrata dall’esigente Swayze.
Il montaggio di tutta la sequenza è molto felice e ha il suo snodo narrativo in un momento in cui i due provano uno dei momenti più caldi della loro esibizione, con Johnny che deve passare sensualmente la sua mano sul corpo di Baby. Ma Baby soffre il solletico e scoppia a ridere ogni volta in cui la mano del compagno le carezza il fianco. È una scena molto naturale e molto spontanea, con uno Swayze particolarmente realistico nelle sue espressioni di disappunto. La ragione? Perché è vera. Quella sequenza non era minimamente prevista dallo script ed è stata girata a notte fonda, con la Grey che faceva i capricci sul set e che provava imbarazzo a farsi toccare da un collega con cui aveva un evidente rapporto conflittuale (i due si erano già incontrati sul set di Alba Rossa di John Milius e pare che si fossero piaciuti e respinti con eguale intensità). Swayze e tutta la troupe erano allo stremo e non ne potevano più di continuare a ripetere quel take.
Ed è qui che Ardolino ebbe l’intuizione che poi fece la fortuna del film: non diede mai lo stop alla camera e continuò a riprendere tutti quei tentativi falliti. E fece così per il resto delle riprese, continuando a imprimere sulla pellicola quel rapporto in divenire tra un maestro che sapeva ballare davvero (Swayze era figlio d’arte in tal senso) e una allieva che non aveva alcuna esperienza in tal senso (la Grey non conosceva un passo di danza prima del film). Tra un attore e un’attrice diversi in tutto ma costretti a collaborare in virtù di uno scopo comune. Tra un uomo e una donna che si piacciono ma si respingono.
Dirty Dancing è una storia d’amore fasulla che porta sullo schermo un conflitto sentimental-sessuale reale e che, di questo conflitto, si alimenta. Il segreto del film è tutto qui, nella sensibilità di Ardolino di capire cosa stava avvenendo davvero sotto i suoi occhi e nella sua abilità nel catturarlo per metterlo al servizio della debole materia narrativa che aveva per le mani. E non stupisce affatto scoprire che l’unica esperienza precedente del regista era un documentario (sulla danza, ovviamente), perché l’approccio documentaristico è quello che porta come dote sul set. Il meraviglioso e assurdo cortocircuito della settima arte, dove la finzione narrativa, completamente artefatta a causa del metodo produttivo, si confonde con la realtà e tesse un ordito che compone un arazzo tra il reale e l’irreale. È una specie di magia che chiamiamo cinema. E Dirty Dancing è cinema in tutto e per tutto.
La scena in sequenza
Foto: © Great American Films Limited Partnership. Veston Pictures
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