Adesso farò un’affermazione forte ma, prima che mettiate mano alle Colt che portate al fianco, fatemi fare una premessa: Sam Peckinpah è uno tra i miei registi preferiti di ogni tempo.
Eppure, nonostante questo, penso che su di lui e sul suo cinema si sia scritto troppo. Tra articoli, saggi, testi di analisi del suo cinema e biografie più o meno romanzate, ci sono più parole scritte sul regista californiano di quante lui ne abbia mai trasportate in immagini. Il perché di questa abbondanza dipende da molteplici ragioni. La prima e la più ovvia, è che il cinema di Sam Peckinpah è interessante e che lo è non solo per le sue grandi qualità, ma pure per i suoi evidenti difetti. Al pari delle storie dei suoi fi lm anche il linguaggio del suo cinema è controverso, contraddittorio, provocatorio, iconoclasta e anarchico. E questo genera discussioni tra chi quel linguaggio lo studia. In sostanza, c’è molto materiale, di qualità molto varia, molto stratificato e complesso, su cui parlare. E su cui litigare.
Il secondo motivo è il periodo storico. Sam Peckinpah arriva alla sua massima popolarità in aperta controtendenza con lo spirito del tempo. L’orgia nichilistica del Mucchio selvaggio piomba sulla generazione del Peace & Love e la sconvolge. I critici liberal del tempo, quando sono generosi, definiscono Il mucchio selvaggio come un bel film inutilmente guastato dall’eccessiva brutalità. Ma quando sono spietati, lo chiamano “pornografi a della violenza”. E le cose non vanno meglio con le due pellicole successive. La ballata di Cable Hogue è una (bella) commedia dolceamara, capace di disattendere tutte le attese, dopo un film clamorosamente epico e drammatico come Il mucchio selvaggio. Mentre Cane di paglia, che esce nel 1971, diventa rapidamente il simbolo di un certo tipo di cinema nemico di tutte le femministe del mondo. L’ultimo buscadero, dell’anno successivo, è un altro buco nell’acqua e sembra che nemmeno il fascino di un divo come Steve McQueen possa rimettere Sam Peckinpah in sintonia con il pubblico, ma la coppia insiste e, sempre nel 1972, esce Getaway che, anche grazie alla bella sceneggiatura di Walter Hill tratta dal romanzo capolavoro di Jim Thompson, diventa l’unico, vero, successo commerciale di Peckinpah.
A quel punto le cose potrebbero mettersi al meglio ma, trattandosi di Bloody Sam, vanno invece nella direzione opposta. Il film successivo sulla carta è una vittoria facile: un western revisionista nel momento in cui i western revisionisti sono di gran moda, con Bob Dylan come attore (non protagonista) e compositore della colonna sonora. Le cose si incasinano in tutte le fasi delle lavorazione (complice anche l’alcolismo del regista) ma il risultato, nonostante questo, è un capolavoro. Ma un capolavoro complicato, introverso e sin troppo moralmente sfumato per soddisfare una nuova generazione di spettatori che si credono alternativi ma che, in realtà, al pari del pubblico che li ha preceduti, vogliono un cinema che prenda una posizione chiara (anche se di senso politico opposto rispetto al passato). Altro insuccesso. È la deriva. L’ultimo “vero” film di Peckinpah è forse la sua opera più personale, controversa, respingente, mortuaria, violenta e provocatoria: Voglio la testa di Garcia. Una pellicola che, ancora oggi, è del tutto inclassificabile. Un masterpiece che però non piace praticamente a nessuno e che fa naufragare definitivamente un regista che era stato paragonato a Kubrick e Arthur Penn. Il resto della sua produzione sono solo filmetti alimentari a basso budget di scarso interesse, scarsa qualità e ancora più scarso successo, con la sola eccezione di La croce di ferro, pellicola bellica ambientata nella Seconda guerra mondiale del 1977 che, a pochi passi daitrionfalistici anni ‘80 a stelle e strisce, racconta una storia di soldati tedeschi. Orson Welles lo definisce come uno dei migliori film di guerra di tutti i tempi e indovinate? Si rivela un altro fiasco.
Peckinpah muore da alcolizzato cronico nel 1984. All’età di 59 anni, solo, in una stanza d’hotel, dopo essere andato controcorrente per la sua intera esistenza.E questo spiega anche un terzo motivo per la particolare attenzione che la critica gli ha riservato dopo la morte: la sua vita. Perché Sam Peckinpah ha vissuto con la stessa dolente intensità dei suoi personaggi, confondendosi con la sua arte. Per questo attira da sempre maggiori attenzioni di tanti altri registi magari più perfetti di lui, che hanno una cinematografia più risolta e più complessivamente riuscita. Questo non è giusto.
Ma la giustizia non fa parte di questo mondo e io sto per parlarvi della scena più classica del film più classico di Sam Peckinpah: il finale del Mucchio selvaggio. La prima cosa da dire è che la scena inizia prima della scena stessa. Cioè non da quando i nostri antieroi camminano spalla a spalle verso il loro destino, ma dalla sequenza precedente, quella del bordello. Pike (William Holden) lascia alcuni dollari d’argento alla giovane e bella prostituta messicana. Troppi soldi ma, tanto, lui sa che sta andando a morire (1).
Di contro, i fratelli Gorch (Warren Oates e Ben Johnson) se ne vanno senza pagare (tra le lamentele delle donne), forse perché sono inconsapevoli del destino che hanno deciso di intraprendere o forse perché lo hanno capito sin troppo bene e vogliono morire restando fedeli a come hanno vissuto: da canaglie. Ad attenderli fuori c’è Dutch Engstrom (Ernest Borgnine), seduto in terra che fa la punta a un pezzo di legno (2).
Lui nel bordello non ci è entrato e, a dirla tutta, non si è avvicinato a una donna per tutto il film. Anche se non esplicitato, risulta piuttosto chiaro che il sentimento che Dutch prova nei confronti di Pike non è semplice amicizia ma amore. E gelosia, a tratti. Comunque sia, Pike e i due Gorch stanno per uscire, ma prima Peckinpah ci riserva un’ultima inquadratura a un uccellino morente, in terra. Il film si apre con uno scorpione che viene divorato dalle formiche mentre dei bambini, innocenti e terribili, stanno a guardare e ridono (scena simbolica che rimanda al finale) e di nuovo il regista usa un’allegoria animale per raccontarci cosa sta per succedere (nel caso specifico, la morte di Angelo, il più idealista della banda di Pike, finito tra le mani vendicative del generale Mapache). Ora la banda è al completo, fuori dal bordello. Uno sguardo d’intesa, nessuna parola. Dutch pianta il bastone nel terriccio e si alza, ridendo. Prendono tutti le armi. Si fermano un attimo spalla a spalla, in una perfetta immagine iconica, poi si incamminano, ripresi con uno zoom che schiaccia la prospettiva e inganna l’occhio (3).
La canzone di un gruppo di mariachi diventa una marcia funebre mentre gli stacchi di montaggio ci mostrano gli spettatori che, al pari nostro, osservano il quartetto con occhi sbigottiti. Pike e i suoi arrivano nel forte diroccato dove il generale sta facendo baldoria. Pike chiede che Angelo venga liberato. Il generale, per tutta risposta, gli taglia la gola (4).
Pike spara. Il proiettile esploso dalla Browing 9mm semiautomatica trapassa il militare da parte a parte (5).
Poi spara anche Dutch con il suo fucile. Più volte. Poi un attimo cristallizzato. Nessuno spara. Per un momento, tutto è in bilico. Dutch fa una risata nervosa (6).
Anche uno dei Gortch sorride. Sembra che la faranno franca, dopotutto. Ma Pike vede il consigliere tedesco, simbolo di un imperialismo europeo che sta allungando le mani sulla Frontiera e spara di nuovo (7).
E scoppia il finimondo. Descrivere nel dettaglio, inquadratura per inquadratura, questa sparatoria finale è un’impresa impossibile in uno spazio ridotto, quindi mi limito a segnalare la cosa più importante, che non è l’uso del rallenty e nemmeno le fontane di sangue (i due elementi più vistosi del cinema di Peckinpah che però non ne rappresentano l’essenza) ma il montaggio. Fino a qualche anno fa Il mucchio selvaggio aveva il record di stacchi di montaggio (battuto poi, intenzionalmente, da Michael Bay con il suo Armageddon) perché il cinema di Bloody Sam è fatto principalmente di questo. Non sofisticati movimenti di camera, non inquadrature ardite, ma una narrazione fatta di dettagli, campi lunghi, primi piani, mezzi busti, piani americani, zoomate, totali, lanciata contro lo spettatore a una velocità quasi subliminale. Una lingua cinematografica che viaggia alla stessa velocità dei proiettili sparati dalla mitragliatrice Gatling impugnata da Pike un attimo prima di morire (8) e che sa alternare lo spettacolo della violenza a toccanti dettagli di umanità.
Sam Peckinpah, con questa sequenza, non solo riesce nella difficilissima crasi tra forma e contenuto, in cui il “come” rappresenta anche il “cosa”, ma inventa una nuova grammatica che prima non c’era e che, negli anni successivi, diverrà la norma per il cinema di movimento moderno. Forse è vero che si è scritto troppo su Sam Peckinpah, ma io ne scriverei ancora per pagine e pagine, quindi è meglio che la chiuda qui.
Grazie di tutto, Bloody Sam, sei stato il più grande.
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Il mucchio selvaggio
- Regia: Sam Peckinpah
- Interpreti: William Holden, Ernest Borgnine, Robert Ryan, Edmond O’Brien
- Distribuzione: Warner H.E.
- Formato: Dvd (edizione speciale 2 dischi)
Foto: © Warner Bros/Seven Arts
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