Best Movie: Quanto è stato difficile recitare senza poter usare la voce?
Tahar Rahim: «Parecchio, anche perché correvo il rischio di risultare grottesco e noioso. Mi sono fatto aiutare da tre persone, due mute fin dalla nascita e una terza che ha perso l’uso della parola durante un’operazione. Con le prime due ci siamo trovati un pomeriggio e abbiamo cercato di comunicare senza usare troppi gesti. È stato interessante, perché alla fine stavamo “parlando” proprio come me e te in questo momento, attraverso gli occhi e l’empatia che si era creata. Del terzo ho notato che il mutismo l’aveva relegato in uno stato di solitudine, ma era evidente che dentro bruciava, come un vulcano. E quando perdeva il controllo iniziava a gesticolare molto. Per cui ho capito che la strada giusta da intraprendere per interpretare Nazaret era una via di mezzo tra questi due atteggiamenti».
BM: E non ti sei ispirato anche a qualche celebre attore del cinema muto?
TR: «Sì, ovvio. Charlie Chaplin, i fratelli Marx, Buster Keaton e – anche se qui parliamo di teatro – Marcel Marceau».
BM: Conoscevi il genocidio armeno anche prima di girare il film?
TR: «Sì, una tragedia terribile, in cui sono morte migliaia di persone e altrettante hanno dovuto sopravvivere allo stravolgimento delle loro vite. Prima dell’inizio delle riprese ho comunque avuto modo di parlare con alcune persone, i cui genitori sono rimasti vittime di quel massacro. I loro racconti mi hanno molto toccato e aiutato a entrare in sintonia con il personaggio, perché per me questo film è più che altro la storia di un padre che perde la sua famiglia. Una storia d’amore».
BM: Anche tu sei credente come Nazaret?
TR: «Sì».
BM: Com’è stato il primo incontro con Fatih Akin?
TR: «Ci siamo trovati d’accordo fin da subito, anche perché condividiamo lo stesso passato; anch’io sono figlio di immigrati: i miei sono originari dell’Algeria, i suoi della Turchia. E poi entrambi siamo molto istintivi. È stato come avere sempre di fronte il mio alter ego, ma dietro la macchina da presa».
BM: So che lui dà indicazioni molto precise sul set. Hai avuto modo di improvvisare?
TR: «Non molto, a dire il vero. Fatih in effetti è un regista scrupoloso, che sa e vuole guidare i suoi attori. Durante alcune scene, quelle più difficili e quando non eravamo convinti del risultato, però, mi lasciava seguire l’istinto e fare quello che sentivo».
BM: Oltre a lavorare con lo sguardo, hai dovuto modellare il corpo e perdere peso.
TR: «Sì, sono arrivato a 61/62 chili, contro i 68 di adesso. Magari tu non vedi troppo la differenza, ma io la sento!». (ride)
BM: Come hanno reagito il pubblico e la critica turca alla visione del film?
TR: «È piaciuto, e questa è la nostra più grande vittoria. Hanno riconosciuto che è necessario far vedere quanto è successo, parlarne. Non me l’aspettavo».
BM: Credi che film come Il padre siano ancor più necessari in un’epoca come la nostra, dove la questione dell’immigrazione è tra le più rilevanti.
TR: «Sì, perché credo sia sempre utile non dimenticare e ricordare alla gente il passato, per far sì che non vengano commessi gli stessi errori».
BM: So che avresti potuto intraprendere una carriera sportiva. E invece hai scelto di fare l’attore.
TR: «A 13 anni ho avuto l’illuminazione e ho iniziato a sognare di poter fare questo mestiere. Anche perché nel paesino in cui vivevo (Belfort, ndr) non c’era molto altro da fare se non andare al cinema, magari anche cinque volte a settimana. Ma prima ho dovuto convincere la mia famiglia. E ho comunque portato avanti gli studi, perché avevo bisogno di avere qualcosa di sicuro in mano, nel caso il mio sogno non si riuscisse a realizzare. Ci vuole sempre un piano B».
BM: Adesso che la carriera è decollata ne hai conservato uno?
TR: «Al momento no, per cui speriamo che il vento continui a soffiare dalla mia parte».
BM: I tuoi ti hanno sostenuto nella realizzazione del tuo sogno?
TR:«Mia madre ha sempre creduto in me, mentre mia sorella è stata sempre molto più scettica. Mi diceva: “Ok, se vuoi fare l’attore, fallo la domenica”».
BM: Sei soddisfatto della tua scelta e del tuo lavoro?
TR: «Decisamente! Mi sento fortunato, perché faccio quello che amo. E in pochi hanno questo privilegio. Ma dall’altro lato vivo sempre con un po’ di nervosismo, perché so che potrebbe finire da un momento all’altro. Questa è la mia preoccupazione più grande».
BM: Hai delle aspettative per il futuro?
TR: «Non delle aspettative, piuttosto un desiderio. Quello di poter lavorare con i migliori registi dei vari Paesi del mondo».
BM: Ce n’è uno in particolare?
TR:«Be’, Martin Scorsese. Tutti coloro che fanno il mio mestiere sognano di lavorare con lui. Tra l’altro lui ha apprezzato molto il film. Siamo andati negli Stati Uniti per farglielo vedere, perché era interessato al lavoro di Fatih. E l’ha visto addirittura due volte».
BM: Hai scelto tu di lavorare con registi internazionali o è stata una coincidenza?
TR: «Entrambe le cose. Per come la vedo io il cinema non deve avere frontiere. Condivido molto quello che una volta ha detto Alfonso Cuarón: “Il cinema è il Paese e i film sono le sue lingue”».
BM: So che il tuo genere preferito è il western. Nel caso capitasse un progetto così, lo accetteresti senza nemmeno leggere il copione?TR: «No, non potrei mai farlo. Quando valuto un progetto tengo sempre in considerazione tre cose: il personaggio, la sceneggiatura e il regista. Se tutte mi convincono allora accetto».
BM: A quali film recentemente hai detto sì?
TR: «Mi vedrete in Samba, la mia prima commedia nonché il nuovo lavoro dei registi di Quasi amici, ancora con Omar Sy. E poi sarò in un progetto di Kurosawa e in una serie tv (The Last Panthers, ndr)».